«Sarà più difficile per noi abbattere il muro che abbiamo in testa che per una impresa demolitrice distruggere quello vero»
Peccato,Counterpart
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«Sarà più difficile per noi abbattere il muro che abbiamo in testa che per una impresa demolitrice distruggere quello vero»
Peccato, perché in conclusione il sentimento che prevale è quello della noia, che unita alla delusione non giustifica a mio avviso la lettura di questo agile (ma solo per dimensioni) insieme di riflessioni di Schneider sulla Berlino degli anni ’70-’80 divisa dal muro. Lo sguardo e il punto di vista dell’autore (che è tedesco, ma non berlinese - nasce nel 1940 a Lubecca, si laurea a Friburgo e che arriva nel 1962, poco più che maggiorenne in una città dove il muro già divide i suoi abitanti) è acuto e interessante, nostalgico e indagatore, ma il risultato finisce per essere quello di un insieme di aneddoti e riflessioni disorganiche che finiscono per disorientare e stancare chi legge. Peccato, dicevo, perché alcuni aneddoti e storie - come quelle dei tanti protagonisti del “salto del muro” (salti fisici, non simbolici, dall’est verso l’ovest, ma anche viceversa, anche solo per andare al cinema a vedere i film americani e ritorno a casa) o la storia dei due studenti di Gorizia che scavarono un tunnel, il Tunnel 29, per permettere a un amico rimasto intrappolato “dall’altra parte” di tornare a ovest (da questa storia è stato tratto un film tv, Il tunnel della libertà con Kim Rossi Stuart e la moglie di uno dei protagonisti, Elle Sesta ha scritto un libro Il tunnel della libertà. 123 metri sotto il muro di Berlino: la straordinaria avventura di due italiani nel 1961 per raccontarla pubblicandolo solo dopo la morte del marito), sono non solo incredibili, ma anche la testimonianza storica della percezione diversa che abbiamo avuto noi della convivenza dei tedeschi di ambo le parti con il muro.
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Su tutte, comunque, le domande che Schneider si pone (nel 1982 - e questo mi preme sottolinearlo, perché ha il valore di un documento storico in presa diretta) e l’elaborazione dei suoi pensieri, trovo che siano le più interessanti quelle dove si interroga sulla casualità della divisione e sugli effetti, provocati dal modello sociale di riferimento in cui gli individui si erano trovati a vivere e a formarsi, che aveva determinato, quale risultanza, una persona anziché un’altra: «In Germania non soltanto il modo di parlare, ma anche particolari rughe della faccia dipendono dai punti cardinali. Queste impressioni, ogni volta facilmente dimenticate, accumulandosi nel corso degli anni si trasformarono in un vero e proprio senso di fastidio. Che nel giro di trent’anni fosse stato possibile creare due sistemi sociali opposti fa quello stesso popolo che con la sua “superiorità” voleva salvare il mondo era già abbastanza sorprendente. Ma ancora più sorprendente era l’intensità con la quale questa contrapposizione esterna era penetrata nel comportamento e nei riflessi di ognuno. Fintanto che questo fastidio investiva solo i tedeschi al di là del muro, non supervalutazioni i limiti di un’esperienza di viaggio. Ma il sospetto che gli abitanti della Germania siano mostruosamente intercambiabili non poteva indietreggiare davanti a un confine, In questo paese la scoperta della plasmabili degli individui non può fermarsi davanti al muro e prima o poi cercherà in prima persona: che cosa sarebbe stato di me, che pensieri, che aspetto avrei, se…»
Ecco, trovo questo brano emblematico, per certi versi il cuore di tutto il libro, l’interrogativo sulla plasmabilità dell’individuo emotivamente sconcertante e destabilizzante, un vero colpo al cuore della democrazia e della libertà personale, che si ripropone, verso la fine, in forma autobiografica, nel capitolo intitolato a Dresda e nell’incontro che l’autore ha con una zia di cui ricordava a malapena l’esistenza e nel “non incontro” con un cugino, che invece non sapeva affatto di avere, che non scende nemmeno le scale per incontrarlo perché ai militari della DDR era vietato incontrare i visitatori dell’ovest, se non in condizioni particolari e dopo richiesta di autorizzazione: «È la prima volta che sento parlare di questo cugino. Il fatto che rispetti il divieto (dal momento in cui nessuno, se non un suo poliziotto interno, avrebbe potuto impedirgli di affacciarsi almeno per un attimo) mi porta a immaginare uno scambio di persona. Se fossi cresciuto nelle stesse condizioni, nella stessa casa, nello stesso posto del cugino, avrei mai potuto sviluppare una tale disponibilità all’obbedienza? Se immagino una risposta conciliante è forse perché non sono mai stato sottoposto a costrizioni del genere? Oppure è perché mi sarei rifiutato di obbedire? E quando avrei iniziato a ribellarmi? […]»
Tutto questo, questa idea del risultato di uno stesso individuo nato e cresciuto a ovest, e di quello stesso individuo cresciuto a est, identici, ma diversi, mi ha fatto pensare alla serie Counterpart, dove, in una Berlino del futuro, divisa in due non da un muro ma da corridoi, stanze di confine e porte scorrevoli, e da una scissione che ha generato di ogni individuo il suo doppio dall’altra parte, si affrontano due umanità identiche ma diverse, l’uno la controparte dell’altro (ed è bravissimo Howard J.K. Simmons nel doppio ruolo che interpreta dell’uno e dell’altro Howard Silk, protagonista della serie).
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Qui una recente intervista a Peter Schneider, molto più brillante del libro stesso, in occasione del trentennale della caduta del muro.
«Non mi azzardo a spegnere completamente la luce. Non posso addormentarmi. Nessuno può addormentarsi, di questi tempi. Questa è la guerra, la guerra d«Non mi azzardo a spegnere completamente la luce. Non posso addormentarmi. Nessuno può addormentarsi, di questi tempi. Questa è la guerra, la guerra di Hitler.»
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Notte inquieta, Notte in treno, Il silenzio del mare, La luna è tramontata: quattro storie differenti per raccontare in una manciata di pagine tutto quello che separa la vita dalla morte, la pace dalla guerra, la follia dalla ragione. Bello e disarmante nella sua semplicità, ma complesso nell’opporre, nel suo solo apparente immobilismo, una resistenza umana agli orrori della guerra fatta solo di sguardi, di parole, di silenzi.
Qui una bella recensione su uno dei film tratti da questo racconto....more
Fermo immagine. Un bambino sollevato in aria, capelli biondi. Forse nel mondo di oggi sarebbe una gif, con i capelli che svolazzano e il baSospensione
Fermo immagine. Un bambino sollevato in aria, capelli biondi. Forse nel mondo di oggi sarebbe una gif, con i capelli che svolazzano e il bambino che fluttua appena. È questo l’unico ricordo che Uwe Timm conserva del fratello Kurdel (Karl-Heinz) di sedici anni più grande morto in Russia durante la guerra a diciannove, quando lui ne aveva solo due, dopo aver subito l’amputazione delle gambe. Timm aspetta la scomparsa della madre e della sorella prima di poter pensare di scriverne e di iniziare le sue ricerche (il padre era già morto trent’anni prima), che nessuno dei suoi cari, sia più in vita. La sua scelta è dovuta a una forma di pudore sentimentale così forte che non si può che cercare di comprendere, alla natura contraddittoria del suo percorso interiore: lui che è stato così in contrasto con il padre, arruolato nella Luftwaffe durante la guerra, lui che di questo fratello, amatissimo e idealizzato, non ricorda e non condivide la scelta di arruolarsi nelle SS-Totenkopfdivision (che come segno distintivo portavano sul berretto e sulle mostrine un teschio), lui che è legato, nonostante tutto, alla sua famiglia, le cui donne, come spesso accade, sono distanti da certe scelte e ostili alla guerra capace di portare solo morte e distruzione, dalla tenerezza di uno sguardo che arriva a posarsi fin dove lui non poteva avere coscienza di nulla.
Tutto quello che resta di suo fratello, tutto quello che conserva, dopo oltre sessant’anni dalla sua morte, sono i ricordi tramandati dalla madre e dal padre, che adoravano questo figlio (diciott’anni, non dimentichiamo, per quanto nazista, che aveva soli diciotto anni quando fu risucchiato nell’inganno ideologico del nazionalsocialismo), e da una scatola di cartone, restituita dopo la sua morte dalle SS, con le lettere, le decorazioni, un paio di foto, un tubetto di dentifricio e un pettine. E sul pettine c’è quel che rimane del suo corpo, qualche capello biondo.
Il taccuino, brevi appunti scritti frettolosamente a matita durante la guerra in Russia, il fatto che sia stato scritto e poi consegnato alla famiglia, è di per sé un miracolo: era proibito farlo - questioni di sicurezza, sarebbe potuto cadere in mani nemiche e rivelare indicazioni preziose - e anche il fatto che sia stato successivamente inviato ai familiari, insieme al mozzicone di matita e al dentifricio seccato nel tempo, è da imputare a un eccesso di burocratico adempimento alle pratiche di evasione e restituzione degli effetti personali.
Uwe Timm che cerca di prendere le distanze da tutto ciò, più di quanto non abbia mai fatto nel suo stupore e nella sua estraneità alle scelte di padre e fratello, parlando dell’uno e dell’altro usando l’articolo indeterminativo - “Il padre”, il fratello”, talvolta anche “la madre” e “la sorella” - ma che spesso tradisce l’affetto per tutti loro usando il pronome possessivo, la tenerezza di chi, cinquant’anni dopo la fine della guerra, adulto egli stesso, si trova a cercare di comprenderne gesti, azioni, ma soprattutto, sentimenti. È un’elaborazione del lutto e dei sensi di colpa, quella di Timm, molto diversa da quella già affrontata durante la lettura di Storia naturale della distruzione di W.G. Sebald, che analizza le cause, gli effetti e le reazioni del popolo tedesco tutto, mentre quella di Timm parte dal privato, cercando di riempire un buco che si consuma dentro di lui, che come un’ulcera lo consuma e lo dissangua da dentro.
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Sono due le frasi intorno alle quali Uwe Timm si blocca, che gli impediscono di capire, nel primo caso di accettare forse l’evidenza. «A 75 metri Ivan fuma una sigaretta, un boccone per la mia mitragliatrice», scrive Karl-Heinz durante l’avanzata in Russia: una frase agghiacciante, che non lascia trasparire alcuna esitazione, né timore, ma indifferenza nei confronti della morte che si appresta a seminare; così come non c’è pentimento, né alcuna altra forma di dissociazione o di dubbio nei confronti di quanto la sua divisione, che semina morte e distruzione fra i civili nelle città russe subito dopo il passaggio della Wehrmacht, nelle lettere che scrive ai genitori, in cui invece si dispera e si arrabbia, indignandosi, per quanto gli alleati compiono bombardando le città tedesche e la sua amata Amburgo.
Com’è stato possibile, si chiede Timm, com’è potuto succedere? Com’è stato possibile che persone come lui, carne della sua carne, sangue del suo sangue, com’è stato possibile che una nazione intera abbia abdicato alla ragione o abbia fatto finta di non sapere, di non vedere? Ripercorre la vita della sua famiglia, quella del padre pellicciaio, mai iscritto al partito nazista, ma incapace di prenderne le distanze, dopo la guerra sempre in cerca di qualcosa che gli restituisse una promessa di futuro, la storia del suo nucleo familiare per cercare di estendere a tutta la nazione il processo attraverso il quale si è deciso di non guardare, di non vedere, di non capire.
E poi l’ultima, sorprendente, Qui chiudo il mio diario perché trovo assurdo fare un resoconto delle cose orribili che succedono»: senza una spiegazione, senza che nessuno, nessuno, avesse più il tempo per potergli chiedere quali fossero le cose orribili che stavano succedendo: le migliaia di ebrei trucidate a Babij Jar senza che nessuno, se non poco più di una decina di soldati, si rifiutassero di sparare, nonostante gli avessero detto che potevano farlo senza conseguenze? I russi sterminati lungo il cammino? I compagni feriti o morti in combattimento?
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Mi sono chiesta a lungo, continuo a chiedermi, quale sia l’esatto significato del titolo: Come mio fratello, a indicare che siamo fatti della stessa carne, ma diversi? Oppure, più correttamente, Sull’esempio di mio fratello (Am Beispiel meines Bruders), come lo stesso Matteo Galli, Germanista e traduttore, traduce più correttamente nella postfazione al romanzo La scoperta della currywurst? E in questo caso, allora, qual è l’esatta sfumatura che spiega il suo significato?
Commovente, toccante, importante, come la lettura successiva de La scoperta della currywurst, in cui tornano sotto forma di romanzo alcuni elementi autobiografici della vita della famiglia dell’autore, mi ha confermato. Un autore che voglio continuare a leggere e a scoprire, una voce che desidero continuare ad ascoltare....more
In periodo di Giorno della Memoria torno a fare le mie letture intorno alla Shoah: testimonianze dei sopravvissuti, dalla parte dei vinti, brevi opere narrative, come questa. Non che non sia possibile farle in altri momenti, ma in quest’epoca, in questo periodo e nell’approssimarsi di questo anniversario, per me è diventato un dovere civico, la mia piccola forma di resistenza. Ed è incredibile come la lettura di questo breve racconto, solo una cinquantina di pagine scritte nel 1954, sia capace di evocarne alcuni altri per affinità, non solo di tematica, ma anche di punto di vista; meno percorso, più difficile da esprimere in letteratura, quello di chi oppose resistenza all’abominio. La vicenda della macellaia tedesca Grete, rievocata alla fine della guerra e portata alla luce grazie all’interessamento del suo interlocutore, il bibliotecario, che aiutò i suoi clienti ebrei senza aver immaginato mai di farlo prima, o di essersene interessata, mi riconduce agli interrogativi sui sensi di colpa e sull’elaborazione di un lutto mai espiato pubblicamente come nazione - si era già sconfitti, si era già stati puniti dai bombardamenti degli alleati, si era già perdenti e smembrati come nazione, cos’altro bisognava espiare? - affrontato in romanzi come A voce alta di Bernard Schlink, che descrive molto bene lo scollamento e la frattura esistente fra la generazione dei padri, quelli che distrussero la Germania, e quella dei figli, inorriditi dal silenzio che li circondava, che crebbero fra le macerie di una nazione che era stata mossa da una ideologia folle, aberrante, incomprensibile: come avete potuto accettare tutto questo, si chiedeva questa nuova generazione, come avete potuto accettare senza ribellarvi? E il “non abbiamo saputo”, il “non abbiamo visto”, è spiegato altrettanto bene da Uwe Timm in Come mio fratello, in cui l’autore, che è nato nel 1940, ripercorre la storia del fratello Karl-Heinz, di sedici anni più grande, arruolato volontario nelle Waffen-SS e morto in Russia quando ne aveva diciannove. “Non abbiamo saputo”, e “non abbiamo visto” perché abbiamo distolto lo sguardo, “non abbiamo saputo” e “non abbiamo visto” perché non ci interessava, arriva a concludere Timm - che poi è molto simile a quanto sta accadendo oggi: purché il nostro sguardo non veda, purché la nostra tranquillità non venga toccata. Ci si poteva rifiutare di sparare agli ebrei, ma solo pochissimi lo fecero.
E poi, inevitabilmente, perché quello che il pastore luterano Albrecht Goes, autore di questo racconto, fa è un racconto di resistenza, di piccola, invisibile, preziosa resistenza, che si verificò nonostante il clima del terrore - perché l’eroismo è istintivo, non si soppesano sui piatti della bilancia i pro e i contro, i rischi personali o i vantaggi che se ne possono ottenere - ho pensato anche alla storia incredibile dei coniugi Otto e Elise Hampel raccontata da Hans Fallada in Ognuno muore solo: resistenza ci fu, ci poteva essere.
Ecco allora che questa piccola storia di resistenza civile che ha quasi il sapore di una parabola, così com’è pervasa da riferimenti biblici, diventa esemplare nell’evoluzione del personaggio di Margarete Walker, che era cieca, perché non guardava, ma poi ha guardato, ha saputo guardare con compassione il suo prossimo, e la sua vita si è illuminata. «Se voi foste ciechi, non avreste colpa», rispose Gesù. «Ma la vostra colpa resta, perché dite di vedere e siete responsabili di ciò che state facendo». Non servono a Dio i nostri sacrifici - «Che m’importa dei molti vostri sacrifici?, dice il Signore. Io li odio» (Isaia 1,11) - ci dice il profeta Isaia, lui, ci ricorda Albrecht Goes, lui cerca solo il nostro amore e la nostra compassione per gli altri, la carità, la pietas: quella di Margarete Walker. E non è strano, allora, che l’immagine evocata nella breve prefazione, dei personaggi protagonisti “come inginocchiati a rovistare nel passato appena trascorso, dando le spalle al futuro” mi abbia ricondotta immediatamente a quella dell’Angelus Novus di Walter Benjamin e alle sue parole: «C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradio, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che gli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.» Parole che mi viene spontaneo unire a quelle alle iniziali di Goes: «Rievocare l’accaduto: ma a quale scopo? Non perché l’odio perduri. Solo un segnale si deve erigere in obbedienza al segnale dell’Eterno, ed è: “Fin qui e non oltre”. Un memoriale, scritto - dove è per chi? Ah, scrive nell’aria chi si ricorda di loro, loro, la cui parte terrena è svanita, polvere e cenere nella terra e nel vento. Abbiamo dimenticato. E si deve dimenticare, perché come potrebbe vivere chi non può dimenticare? Ma talvolta deve pur esserci qualcuno che ricorda. Perché qui non c’è solo cenere nel vento. C’è una fiamma. Il mondo morirebbe assiderato se non ci fosse una fiamma.» L’unica redenzione possibile per Benjamin è quella della memoria.
Nessuno mi ha nominata guardiana, ma qualcuno dovrà pur proteggere questa gente in fuga che prega....more
Romanzo numero uno di quattro in cui ogni capitolo descrive le vicende di un giorno compreso fra il 21 agosto 1967 e il Jerichow - New York - Jerichow
Romanzo numero uno di quattro in cui ogni capitolo descrive le vicende di un giorno compreso fra il 21 agosto 1967 e il 20 agosto 1968. Le vicende narrate sono quelle di Gesine Cresspahl, tedesca dell’est emigrata a New York negli anni Cinquanta, e della figlia Maria, ed è proprio attraverso il racconto dei suoi ricordi alla bambina, che anche noi ripercorriamo - in una fitta alternanza di piani temporali, in cui il presente è scandito dalla lettura e dagli articoli del New York Times (zia Times, come lo chiamano affettuosamente fra loro) - la storia della sua vita e quella della sua famiglia da prima ancora della sua nascita, fin dall’incontro dei suoi genitori a Jerichow, uno sconosciuto (e immaginario) borgo del Meclemburgo agli inizi del secolo. È anche il modo per rivivere l’evoluzione della società tedesca attraverso le contraddizioni storiche e politiche del periodo, fino a giungere all’ascesa del nazismo, in un continuo parallelo con le incongruenze storiche e sociali della società contemporanea americana, in bilico fra Sessantotto, discriminazioni razziali e Vietnam. È un romanzo complesso, per certi aspetti difficile, a volte estenuante per la meticolosità degli eventi e delle percezioni descritti da Johnson, ma interessante e affascinante se la passione per la storia passata e le evoluzioni che hanno portato al costituirsi della nostra società civile attraverso il passaggio della Seconda Guerra, rientra fra gli interessi di chi legge. Confesso di averlo terminato con un certo sollievo, ma a distanza di tempo (ora che questa lettura è tornata alla mia memoria) non escludo prima o poi di proseguire con il secondo volume.
Curiosità: il tedesco del dialetto del Meclemburgo viene reso in traduzione con l’utilizzo di un sorprendente idioma pisano....more
Quando Hans Castorp, giovane tedesco di Amburgo poco meno che trentenne, benestante, orfano e ingegnere, destinato a subentrare nSette anni, una vita.
Quando Hans Castorp, giovane tedesco di Amburgo poco meno che trentenne, benestante, orfano e ingegnere, destinato a subentrare negli affari ai ricchi zii che lo hanno allevato, sale a trovare il cugino Joachim ricoverato nel Sanatorio Berghof a Davos in Svizzera per curare un principio di tubercolosi, ancora non sa che trascorrerà lì, lontano "dal piano", sette lunghi anni della propria vita. Sette anni in cui, così come l'aria diventa sempre più rarefatta mano a mano che si sale in montagna, anche la vita di Hans Castorp diventerà sempre più distaccata dalle "cose di laggiù" arrivando a trovare nel microcosmo cosmopolita del sanatorio - dove arrivano malati di ogni parte d'Europa, dalla Russia alla Germania, dall'Olanda e dall'Italia e alcuni anche da Oltreoceano - un nuovo mondo capace di bastare a se stesso e abbandonando via via tutta quella zavorra inutile che ciascuno di noi inconsapevolmente si trascina dietro.
Non si parla di "cose inutili", sì anche di cose materiali ma, soprattutto, di modi di pensare, di legami, di retaggi, di tutti quei condizionamenti capaci di influenzare e decidere il corso dell'esistenza di ciascuno di noi che Hans Castorp, in un processo che è lunghissimo e allo stesso tempo brevissimo, perché la prima cosa di cui si noterà l'assenza-presenza è proprio il tempo, -mi viene in mente il bel film coreano Primavera, estate, autunno, inverno e… ancora primavera che racconta la vita di un monaco buddista attraverso le stagioni della sua vita- attraverso l'incontro e lo scontro con personaggi indimenticabili come il logorroico umanista Lodovico Settembrini - che diventerà nel corso del romanzo una sorta di mentore dello stesso Castorp -, il gesuita pessimista Leo Naphta, l'affascinante Clavdia Chauchat, l'enigmatico Professor Beherens, ma anche il suo malinconico e romantico alter ego - il cugino Joachim Ziemssen - riuscirà ad alleggerire modificando se stesso e il proprio approccio alla vita.
La montagna incantata quindi - magica nella nuova traduzione italiana di Renata Colorni per Meridiani e forse la sottile differenza potrà essere intesa solo a lettura ultimata - nella sua monumentalità, diventa un romanzo che in sé racchiude non solo una grande storia - di malattia, di morte, di vita, di guerra - ma anche un trattato di filosofia (a volte un po' pesantina, lo confesso, soprattutto per me che filosofia non l'ho mai studiata), di psicologia, di letteratura, di religione, e ancora di arte, di musica, di Storia, di storia dei popoli, di studio e rappresentazione dell'Umanità intera. Thomas Mann, nel discorso tenuto all'Università di Princeton, riportato in calce alla Montagna, suggerisce di leggere il romanzo due volte, perché solo quando si conosce già la musica è possibile poi apprezzare l'Opera; ed io allora, nonostante abbia faticato non poco a scalare questa montagna, non posso che dargli ragione e sussurrare: - "Arrivederci Hans Castorp!".
[edit] Mi accorgo solo ora che i sette anni di Hans Castorp corrispondono ai miei sette mesi di lettura :-)...more
«Poiché l'amore è fatto così, da credere di avere esso solo dei diritti e che tutti gli altri spariscano dinanzi a lui.»
Ho sempre pensato che con affi«Poiché l'amore è fatto così, da credere di avere esso solo dei diritti e che tutti gli altri spariscano dinanzi a lui.»
Ho sempre pensato che con affinità elettive, il modo di dire non il romanzo, ci si riferisse a quella particolare sintonia che viene a crearsi fra due persone, non necessariamente legate sentimentalmente, che si accorgono di avere un'affinità, appunto, privilegiata con l'altro, in un certo senso istintiva, forse non spiegabile con la ragione. Scopro invece leggendo Goethe che non è affatto così, che il legame è passionale, del tutto sentimentale, e che il termine è mutuato dalla chimica e fa riferimento a quegli elementi che una volta venuti in contatto, anche se già legati ad un altro elemento «lasciano il precedente legame per contrarne uno nuovo». Prendiamo ad esempio «una A intimamente legata a una B, da cui nessun mezzo e nessuna violenza possa separarla» e paragoniamole a quello che avviene al calcare, una terra calcarea «intimamente connessa a un acido leggero a noi noto sotto forma di gas. Se si mette un pezzo di una simile pietra in acido solforico diluito, questi si lega alla calce e insieme a essa diviene gesso, mentre quel leggero acido aereo evapora». Quindi un nuovo elemento, C, è intervenuto nel legame tra A e B provocando una separazione, autorizzandoci a «usare addirittura il legame affinità perché pare proprio che un legame venga preferito all'altro». A volte può succedere che B, anziché evaporare come succede all'acido, una volta separato da B, possa essere attratto, poniamo il caso, da D, ma che continui comunque a cercare il legame con B, che invece è talmente preso da C da considerare ormai il vecchio legame inesistente, diciamo pure inutile, a negare persino che esso sia mai esistito, addirittura. Ecco, tra elementi chimici, la scoperta e la moda degli anni in cui Goethe scrisse «Le affinità elettive», tanti problemi non ce ne sono, tutto va secondo natura, ma tra Charlotte e Eduard, il Capitano, e Ottilie, è tutta un'altra storia. Una storia in cui ci si interroga tra convenzione, legittimità, illegittimità, matrimonio, divorzio, mutevolezza, libertà, passione, dove forse le parti più intense, ancor più della storia in sé e dello sviluppo della stessa, sono proprio i ragionamenti sulle istituzioni e sui sentimenti. Ma io, dico la verità, in questa storia, di passione ne ho trovata veramente pochina, molto romanticismo è chiaro, perché al contrario mi è parso di incrociare il rimbambimento maschile di mezza età della B, la bellezza dell'asino della C, la saggezza dell'uomo D e l'incredibile equilibrio di una A che, dopo aver tentato di salvare in ogni modo il proprio legame, si ricorda di non essere «terra calcarea» e decide di comportarsi da vera donna e di uscire elegantemente di scena. Io, invece, quindi, resto qui, perplessa, a interrogarmi sul fatto che non sono affatto le affinità elettive che credevo io, una volta superata la fase dell'attrazione lo slancio e la passione iniziali, e cioè gli interessi, l'identità o lo scambio di vedute la crescita e l'intesa cerebrale, a rendere saldo un legame, un'intesa intellettuale prima ancora che fisica, quanto piuttosto quell'improvviso guizzo che attira un elemento verso un altro, la chimica insomma. Ed io che pensavo che l'amore fosse alchimia! Chimica, invece, tutto qua?
«Nel mondo le cose vanno diversamente: dietro il sipario si continua a recitare e quando si rialza non si ha più nessuna voglia di vedere o udire il seguito.» ...more
In una notte d'inverno, quando fuori la pioggia cade piano e i tuoni rimbombano in lontananza, ricordarsi seduta in un pomeriggioNuotando nella notte.
In una notte d'inverno, quando fuori la pioggia cade piano e i tuoni rimbombano in lontananza, ricordarsi seduta in un pomeriggio di settembre con una limonata asprissima fra le mani sui tetti di Sant'Antoninu - la costa Ovest, quella che preferisco - e trovarsi a guardare la Corsica con gli occhi di Sebald. La storia, le credenze e le usanze dell'uomo, la natura, il mare; alle spalle le Alpi, le «Dolomiti corse», quei picchi innevati anche fino a primavera inoltrata, di fronte il mare, ora azzurro, ora verde smeraldo, ora celeste trasparente e le distese di sabbia bianca, di ciottoli neri, i sassolini rossi, in un'infinità varietà di forme e colori, con lo sguardo volto all'orizzonte e all'infinito, sospesa tra cielo e mare. Quattro frammenti di un viaggio mai terminato estratti da un'opera non ancora tradotta nella sua interezza, «Campo Santo», che in poco più di settanta pagine, intense e dense di contenuti - contenuti che come al solito in Sebald spaziano dall'architettura alla botanica e dalla Storia alle tradizioni popolari alla Letteratura - restituiscono una Corsica che con Napoleone visse di gloria riflessa divenendo improvvisamente grande e maestosa, capace di svelarsi nelle improvvise acque cristalline e nelle baie protette ora da calanches ora da lunghi tratti desertici ma che nel contempo, per la sua natura di isola impervia e inaccessibile, è scrigno che custodisce misteri, ombre, rituali svelati e raccontati malvolentieri, foreste talmente fitte, molto spesso purtroppo distrutte nel tempo dall'uomo, da poter essere penetrate solo dagli animali selvatici, o dall'odore pungente del mirto. Oppure, alla fine, dal fuoco. Una terra, quella inaspettatamente aspra e impervia dell'interno, che diventa interno a pochissimi chilometri dal mare, che coincide con la mancata disposizione d'animo, mai celata dai suoi abitanti, di chiusura verso lo straniero, francese o italiano che sia, dove a ogni esplosione, anche la più piccola e sorda, può corrispondere un incendio, un gruppo di cacciatori che si sono inoltrati nel maquis, la fulcina che arriva con la falce in pugno per portare qualcuno con sé nel regno dei morti, una bomba lanciata nella notte dagli indipendentisti, oppure un sussulto dell'anima. Dovunque tu vada - sembra dire Sebald, mi viene in mente prendendo in prestito il titolo di un saggio di Kabat-Zinn - tu ci sei già. Io ci sono, e se il mio amore per la Corsica è di vecchia data e stabile nel mio cuore, quello per Sebald è in crescita costante.
«Quando poi però, obbedendo a quell'istinto singolare che ci lega alla vita, feci dietro front per riguadagnare la terra, che da laggiù pareva un continente ignoto, bracciata dopo bracciata nuotavo sempre più a fatica, e non già per la sensazione di procedere contro corrente, quella corrente che mi aveva portato fin lì; no, mi sembrava piuttosto, s si può dir così per una distesa d'acqua, di risalire un pendio.»
«Ma per lo meno sono rimasto onesto - disse. - Non sono stato loro complice»
Diceva Karl Marx che la storia si ripete sempre due volte: la prima volta «Ma per lo meno sono rimasto onesto - disse. - Non sono stato loro complice»
Diceva Karl Marx che la storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa. In questo romanzo di Hans Fallada, che trae spunto da una vicenda realmente avvenuta nella Germania nazista in cui si narrano le vicende dei coniugi Otto e Anna Quangel (Otto e Elise Hampel nella realtà, e forse nella realtà meno convinti e meno eroici dei loro epigoni letterari) e della loro decisione di opporre resistenza al regime scrivendo e 'abbandonando' in giro per Berlino cartoline che ammonivano i cittadini e li esortavano a ribellarsi alla follia sanguinaria del Führer, sembra piuttosto essere vero il contrario. Tutto sembra essere farsa in questa storia, dall'incedere stesso, a tratti gelido, della vicenda che appare avanzare e progredire grazie alla casualità e alle coincidenze, dai personaggi grotteschi e ridicoli che ruotano intorno ai protagonisti, il vile Enno e il viscido Borkhausen su tutti, agli stessi rappresentanti della Gestapo, delle SS, della SA, fino ai più alti vertici del Reich. Sarebbe una farsa, appunto, se tutto questo non fosse e non culminasse in tragedia, se tutto questo non fosse realtà. Ma se a questa tragedia persino uno come Hans Fallada, che terminò la sua vita in ospedale psichiatrico a combattere con le ombre e i fantasmi del suo drammatico passato e di una vita sempre vissuta in bilico tra l'abuso di droghe e di alcol e la decisione spesso presa, ma mai attuata, di andarsene anziché restare nella Germania di Hitler, e che scrive proprio nell'introduzione all'opera Spesso l'autore si è rammaricato di dover tracciare un quadro così fosco; ma una maggior luce sarebbe stata una menzogna, se persino Fallada riesce a contrapporre un personaggio che brilla di luce propria come quello della postina Eva Kluge che oppone anche lei una sua propria forma di resistenza non punibile con la morte, ma che ha il coraggio di ricominciare da capo e restituire alla vita un ragazzino di tredici anni, destinato a diventare un delinquente e un possibile assassino nelle mani del Reich, se persino lui, Fallada, riesce a intravedere un fascio di luce e decide di chiudere questa storia con una improvvisa ventata di ottimismo, anche a noi, allora, non resta che credere e sperare e guardare al futuro nella certezza che quel di buono che avremo seminato, un giorno, sarà raccolto, e lasciarci scaldare da quella luce. Ma io, mi chiedevo durante la lettura, sarei mai stata capace io, schiacciata dal terrore, di seminare, di opporre la mia resistenza? Ho paura della risposta, che per fortuna non conoscerò mai, nella speranza che farsa e tragedia si siano già compiute nella stessa Storia.
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Elise e Otto Hampel
Di grande valore sia la postfazione di Geoff Wilkes che, in Appendice, le parole dello stesso Fallada scritte per il mensile politico-culturale «Aufbau» prima della stesura dello stesso romanzo. Sulla figura politica di Fallada e sulla sua posizione «non posizione» trovo molto belle, e forse condivisibili, le parole dello stesso Wilkes: Il dibattito su cosa fosse giusto, se abbandonare la Germania nazista oppure restarvi, va avanti dal 1933 ed è troppo complesso perché lo si possa qui ricapitolare; vale tuttavia la pena di osservare che i conflitti evidenti nella vicenda di Fallada erano abbastanza tipici per chi aveva deciso di restare in patria: né la collaborazione era necessariamente solerte, spontanea e totale, né la resistenza immediata, sprezzante del pericolo e aliena da compromessi. L'unica cosa certa, per Fallada come per tutti gli altri, era che anche moderati atti di resistenza comportavano il rischio della prigione o della morte.
La traduzione, del 1949, immancabili i settentrionalismi tanto in voga all'epoca, mostra evidenti i segni del tempo trascorso.
27 gennaio 2013
Da qualche anno ho deciso di ricordare la giornata della memoria, il 27 gennaio, leggendo un libro che ricordi la Shoah. Quest'anno sposto il punto di vista e inizio a leggere «Ognuno muore solo» di Hans Fallada, per non dimenticare, ma anche per ricordare a me stessa e al mondo che nell'uomo si può ancora credere e sperare.
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Una delle cartoline: «Hitler non ha moglie / il macellaio non ha carne / il fornaio non ha farina / è questo il Terzo Reich. / Per la prepotenza di Hitler / noi popolo tedesco siamo senza / pace! Abbasso la banda Hitler»...more
Austerlitz è un viaggio doloroso e immaginifico nei meandri della memoria - claustrofobico, agorafobico, labirintico - Disse Austerlitz, disse Sebald.
Austerlitz è un viaggio doloroso e immaginifico nei meandri della memoria - claustrofobico, agorafobico, labirintico - ma è anche un viaggio attraverso l'Europa, da Anversa a Londra, da Parigi a Praga, un viaggio fisico e spirituale apparentemente senza meta. È il vagabondare della mente alla ricerca del proprio corpo e delle proprie radici, perché Austerlitz quelle radici le ha perse e non sa chi sia. Sebald incontra Jacques Austerlitz, un professore di Storia dell'Architettura - cito dalla quarta di copertina - studioso di quei luoghi che, soprattutto nell'Ottocento, tendevano ad assumere forme involontariamente visionarie per la prima volta alla stazione di Anversa, per poi incontrarlo nuovamente, casualmente, o forse inconsciamente cercandolo, a Londra molti anni dopo. Dico "Sebald incontra Austerlitz" perché questo non è un romanzo, nonostante così venga definito; non ne ha la struttura, è un flusso di ricordi ininterrotto, "un blocco monolitico" ha scritto qualcuno, che passa di voce in voce, da Austerlitz a Věra, tenuto insieme da un narratore nel quale non riesco e non posso a fare a meno di riconoscere e identificare lo stesso Sebald. Faccio fatica a credere che tutto questo narrare possa essere frutto dell'immaginazione, sia pure un'immaginazione documentata, o che Sebald non abbia davvero conosciuto Austerlitz, che le foto in bianco e nero che all'improvviso si fanno timidamente largo tra le parole della storia che Sebald ci narra, frammentata da mille divagazioni e digressioni urbanistiche, naturalistiche e storiche, non siano effettivamente le foto di Austerlitz e della sua vita: i pezzi di un mosaico da ricomporre, i frammenti di un'esistenza rubata, la prova concreta di un'identità manipolata. E poi, l'architettura. Mi chiedevo il perché di questa insistenza quasi fastidiosa nel descrivere luoghi stranianti come le stazioni, le casematte, le fortezze, temevo di non riuscire ad uscire fuori da queste prime trenta, quaranta pagine in cui le parole descrivono solo strutture, costruzioni, pietre, muri, separazioni. Poi ho capito, o almeno ho trovato la spiegazione giusta per me, per il mio sentire. Austerlitz, e non a caso Austerlitz è anche il nome di una grande battaglia napoleonica e di una stazione parigina, è egli stesso un'architettura vivente, ogni uomo lo è. Ma Austerlitz è un'architettura senza fondamenta, o meglio una costruzione della quale non si conosce il progetto iniziale, e quindi deve partire dall'alto, da quello che è diventato, per cercare quello che era: lui sa solo di essere stato "Dafydd Elias", un bambino solitario figlio adottivo di un predicatore calvinista e di essere cresciuto nel freddo Galles, in una stanza con le finestre murate; finché il diventare "Jacques Austerlitz", da un giorno all'altro, non lo ha posto di fronte all'inquietudine, al desiderio, alla necessità di scoprire dove tutto ha avuto inizio, dove sono state poste le fondamenta del suo essere. Così le stazioni ferroviarie, crocevia del mondo dove le vite dei bambini ebrei dell'est venivano smistate e convogliate in Gran Bretagna, sradicate e trapiantate, diventano il punto di partenza non solo fisica ma anche mentale, il punto centrale per riannodare tutti i fili, per cercare di seguire le tracce più esili, le visioni più inquietanti, l'inizio di un viaggio a ritroso che lo porterà da Londra a Praga, da Praga al Ghetto di Theresienstadt. È sì un naufragio, come ieri sera diceva @Giusi nel corso di una bellissima serata trascorsa insieme ad altri amici a parlare di questo libro, ma un naufragio dal quale alcuni relitti sono stati recuperati, alcuni frammenti isolati e raccontati, altri catalogati, ed io credo che se anche uno solo di quei relitti sarà tramandato o uno di quei frammenti riconosciuto, niente sarà perduto per sempre. Leggere Austerlitz, leggere Sebald, è stato per me trovare una risposta a quella domanda, a volte anche stupida, che mi capita spesso di trovare qui nei thread: "Cos'è Letteratura?". Sebald lo è, è quel leggere al quale ti devi abbandonare, quelle parole che a volte fai fatica a seguire, quelle frasi che entrano sotto l'epidermide e poi passano nelle vene per iniziare a scorrere fluide nel sangue, è capire il suo desiderio di non lasciare dissolvere una generazione, la sua, travolta dal senso di colpa del popolo tedesco alla fine della guerra, è il rammarico per l'assenza di un grande romanzo epico tedesco sulla guerra e il dopoguerra, quel romanzo che, io ne sono convinta, forse proprio lui ci avrebbe potuto regalare. Leggere Sebald è prendere un petit sac à dos avec quelques viatiques e partire con Austerlitz per un infinito viaggiare....more
Non ho sicuramente le competenze storiche, né tantomeno quelle letterarie, per commentare questo saggio di W.G. Sebald, in realtà più che uEspiazione.
Non ho sicuramente le competenze storiche, né tantomeno quelle letterarie, per commentare questo saggio di W.G. Sebald, in realtà più che un saggio la raccolta parziale di alcune conferenze tenute dall'autore sul tema "Guerra aerea e letteratura" e un'analisi critica sulla figura e sulla produzione letteraria dello scrittore tedesco Alfred Andersch, per cui mi limiterò ad alcune riflessioni personali. Sebald era nato nel maggio del 1944, afferma per cui di appartenere «al novero di coloro che, in fondo, sono stati risparmiati dalla catastrofe compiutasi allora nel Reich». «Una catastrofe che tuttavia ha lasciato tracce nella [sua] memoria». Cerca di capire, Sebald, come mai «non sia ancora stato scritto il romanzo epico tedesco sulla guerra e il dopoguerra» e pone l'accento sul fatto che «quando volgiamo gli occhi al passato, [noi tedeschi] in particolare agli anni compresi fra il 1930 e il 1950, è sempre al tempo stesso un gettare e distogliere lo sguardo». Ecco, una sorta di amnesia collettiva di un popolo che ha voglia di dimenticare e che allo stesso tempo crede che la distruzione aerea di cui sono state bersaglio città come Dresda, Amburgo o Berlino (ma anche molti centri minori di cui non abbiamo mai sentito parlare), l'esodo forzato che portava milioni di persone ad abbandonare stordite e sotto choc le proprie città e a vagare da una parte all'altra della Germania, la convivenza passiva con vermi e parassiti che divoravano i cadaveri, i propri bambini morti durante i bombardamenti trasportati dentro le valigie, fossero tutte "punizioni" meritate, fossero quanto il popolo tedesco doveva scontare perché postosi dalla parte dei "cattivi". Mi viene in mente una bellissima frase pronunciata nel film "The Reader", tratto dall'altrettanto bel romanzo "A voce alta" di Bernhard Schlink, che uno studente tedesco negli anni '70 rivolge, riferendosi al periodo post-bellico, ad uno dei suoi insegnanti: "Non ci chiediamo come avete fatto a non accorgervi di quanto stava succedendo, ma come avete fatto, quando l'avete capito, a non uccidervi". Forse la chiave è tutta lì, in quella mancata presa di coscienza che avrebbe dovuto portare non al suicidio di massa del popolo tedesco, quanto piuttosto all'elaborazione di un lutto collettivo....more
non credo di anticipare nulla di più di quanto scritto nella trama del film sui giornali, ma nel caso non vogliate saperne troppo non leggete!
A voce anon credo di anticipare nulla di più di quanto scritto nella trama del film sui giornali, ma nel caso non vogliate saperne troppo non leggete!
A voce alta è un romanzo che fa discutere, perché si presta a molte interpretazioni e a diversi piani di lettura, rilanciato anche dall'uscita del film the reader con il quale kate winslet ha vinto l'oscar come miglior attrice protagonista. michael è un ragazzo di quindici anni che intreccia una relazione sentimentale con la trentaseienne hanna. siamo a berlino nel dopoguerra e la relazione tra i due è tutt'altro che platonica: michael vive i primi turbamenti e la propria iniziazione sessuale in un completo sconvolgimento di sensi ed emozioni; emozioni esaltate durante gli incontri con l'amante nei quali il ragazzo le legge ad alta voce alcuni tra i più bei classici della letteratura mondiale; fino all'improvvisa quanto imprevista scomparsa della donna dalla sua vita. la incontrerà nuovamente molti anni dopo, ormai studente di legge, durante un processo: hanna è una delle imputate in un processo al nazismo, accusata di non aver cercato di impedire durante un incendio la morte di trecento donne ebree, rinchiuse in una chiesa e la cui custodia era affidata a lei e ad altre guardiane. il turbamento di michael è il metro di misura su cui si fonda l'intero romanzo: all'inizio le emozioni riguardano esclusivamente la sua persona. è lui che si innamora, che prova un sentimento che lo avvolge interiormente e fisicamente, e vede la sua vita quotidiana modificata da questi sentimenti, fino ad un quasi totale rapimento delle sue azioni e dei suoi pensieri e allo stravolgimento della quotidianità. nella seconda parte invece, quella del processo, il turbamento di michael è tutto interiore e di carattere emotivo ma non sentimentale. michael si sente tradito, tradito in quanto essere umano. l'orrore della shoah è troppo grande per lui, infinitamente più grande dell'amore che ha provato per hanna, più grande del vuoto lasciato dalla sua assenza. michael è incapace di perdonarla. non lo farà neanche quando avrà la possibilità di salvarla. quello che invece mi sfugge è il sentimento di hanna, nella quale sinceramente non riesco proprio a immedesimarmi, anche se la cura e la dedizione con cui in certi momenti si abbandona al ragazzo sono commoventi. hanna è una donna a tutti gli effetti, così come michael è soltanto un ragazzo. in certi momenti il suo interesse sembra quasi materno, per poi sconfinare in un rapporto esclusivamente carnale e per poi, infine, diventare cerebrale. sembra quasi che hanna, una volta finita la guerra e chiusi i campi di concentramento, sia solamente alla ricerca di qualcuno di cui prendersi cura e che allo stesso tempo si prenda cura di lei, e che il coinvolgimento sessuale sia del tutto incidentale. resta poi del romanzo la presa di coscienza della generazione immediatamente successiva a quella che sposò il nazismo: una generazione intera, quella dei giovani degli anni settanta, incapace di rassegnarsi a quanto accettato attivamente o passivamente dai propri genitori. "non ci chiediamo come avete fatto a non accorgervi di quanto stava succedendo, ma come avete fatto quando l'avete capito a non uccidervi" è una delle frasi che più mi ha colpito nel film: nel libro non è presente ma riassume il senso dello scontro che avviene nel romanzo tra il professore e alcuni degli studenti di legge che assistono al processo ad hanna, un processo dove, il professore cerca di spiegare agli studenti, si dovrà stabilire se le imputate avranno commesso reato in base alle leggi dell'epoca e non a quelle attuali e la triste considerazione su quanto la legge sia fatta di cavilli e non di moralità.
correva voce che sul lungomare fosse comparso un nuovo personaggio: la signora col cagnolino. (...) (a. cechov)...more
Ho appena scoperto che è stato ripubblicato a gennaio da Neri Pozza: quando lo leggemmo con il gruppo di lettura, non solo fu difficile trovarlo (io lHo appena scoperto che è stato ripubblicato a gennaio da Neri Pozza: quando lo leggemmo con il gruppo di lettura, non solo fu difficile trovarlo (io lo recuperai in biblioteca), ma non furono nemmeno in molti ad apprezzarlo; io, invece, l'avevo trovato colmo di poesia e di una bellezza struggente.
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Cos'è in fondo una bugia?
Una mistificazione della verità, il tentativo di nascondere una realtà inaccettabile, un barlume di speranza che si accende all'improvviso? La bugia di Jakob è una bugia bianca come una nuvola d'ovatta, di quelle dette non per far male, ma per aiutare a sperare nel domani e risollevare un'intera comunità dalla difficoltà di "vivere senza un futuro". Jakob il bugiardo - del quale esistono ben due riduzioni cinematografiche: la prima del 1975 premiata al Festival di Berlino per il miglior attore protagonista e la seconda del 1999, remake Hollywoodiano con Robin Williams - è un romanzo surreale nello spunto di partenza, ma assolutamente reale nel suo svolgersi e nella rappresentazione di vita quotidiana dei suoi protagonisti, sulla cui scia in seguito, si collocheranno storie ben più incredibili come quelle di La vita è bella e Train de vie.
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Jakob, ebreo polacco costretto nel ghetto di Łódź durante l'occupazione nazista, racconta ai compagni di prigionia di possedere una radio - oggetto proibito agli ebrei e scampato miracolosamente al sequestro - con la quale riesce ad avere notizie sull'avanzata dei russi in terra polacca; in realtà Jakob non possiede alcuna radio, ha solamente avuto l'occasione di ascoltare un frammento di notizia sulla quale imbastire la sua bugia. Lo stile narrativo, quasi tutto in prima persona plurale e con un incedere quasi distaccato, ai limiti della pura cronaca, con il quale un sopravvissuto compagno di Jakob, testimone indiretto ma destinatario delle confidenze dello stesso Jakob alla fine della guerra, narra le vicende che si verificarono nel ghetto dall'arrivo della radio, sono lo spunto per offrire uno spaccato sulla vita degli ebrei nel ghetto e per ragionare insieme al lettore su temi universali come la solidarietà, la speranza e, ancor più in profondità, sul significato e sulle conseguenze della bugia a fin di bene, sul rapporto pietà-inganno che si instaura tra "il bugiardo" e le sue "vittime".
Cos'è in fondo la bugia di Jakob se non un estremo atto d'amore, il tentativo ultimo di sfuggire all'apatia e all'abbandono, la possibilità di regalare una salvezza e con essa di offrire in dono il futuro? È giusto regalare ad un malato terminale, che sappiamo inesorabilmente condannato, la possibilità di una vita che sappiamo già non esistere più? È giusto offrire ad un condannato al carcere a vita una via di fuga, una porta invisibile eppure assolutamente reale? È giusto offrire speranza anche per chi sembra non essercene più? Jakob regala ai suoi compagni una nuvola d'ovatta bianca, grande più del cielo intravisto dal vagone con quale saranno deportati e, con essa, fino all'ultimo, la speranza di un albero: il ricordo di un albero: la possibilità di un albero: di tanti alberi sotto la cui ombra riposare in pace.
«Ecco giunto il mio momento. Mi seggo anch'io, mi accosto a lei e domando se vuole che le spieghi io di cosa sono fatte le nuvole. Lo vuole, sì, ed io le racconto di fiumi e laghi e del mare, dell'eterno ciclo dell'acqua, della quasi incredibile evaporazione, come l'acqua fluisce invisibile verso il cielo, vi si raccoglie in minuscole gocce, in nuvole, che in qualche momento si fanno pesanti e bagnate come una spugna zuppa, fino a perdere le gocce nuovamente come pioggia. Non tralascio nemmeno il vapore di locomotive, ad esempio, e di fumaioli e fuochi vari, mi ascolta con attenzione, ma scettica, so che questa lunga storia non è possibile sbrigarla in una sola lezione.»
«Pieno di aspettativa mi alzo e guardo fuori, finché annotta. Vedo paesi e campi, una volta, lontana, perfino una cittadina; presso uno stagno semicoperto da una natura selvatica scorgo un gruppo di soldati che riposa tra camion, pezzi di artiglieria e mucche. E vedo stazioni addormentate, binari e barriere e cantoniere, sulle quali cassette verdi traboccano di fiori; mi chiedo, se queste cassette sono un ordine di servizio, perché sono esposte da tutte le cantoniere e tutte verdi. E vedo gente che guarda dietro al nostro treno, non riesco a riconoscerne i volti, ma innanzitutto vedo alberi, ormai quasi dimenticati, sebbene sia ancora giovane, un numero enorme di alberi. Faggi e ontani e betulle e salici e pini selvatici, Dio mio, quanti alberi vedo, gli alberi non finiscono più. Fu per un albero che non divenni violinista, sotto un albero divenni un vero uomo, i cinghiali sopraggiunsero troppo tardi per impedirlo. E sotto un albero sconosciuto persi mia moglie Chana e un paragrafo di regolamento tentò di vietarmi gli alberi per sempre. Qualcuno sostiene che gli alberi confondono la mia mente, io continuo a starmene lì; talvolta, ancora oggi monto su un treno, per un tragitto particolarmente boscoso, a tutto preferisco il bosco misto. Poi sento la voce di Jakob: - Non vuoi dormire finalmente? - Lasciami ancora un po', - dico io. - Ma non vedi più niente, - sento dire. - Invece sì. Vedo infatti ancora le ombre degli alberi, e dormire non posso, andiamo, dove andiamo. »...more
Va da sé, vista la data di inizio lettura, che la scalata di gruppo sia ridotta ormai da tempo in arrampicata solitaria. Anzi, a dirla tutta, è da parecchio che sono ferma in quota: respiro l'aria purissima, mi ossigeno, e leggo altro. Io e Hans Castorp ci siamo dati un nuovo appuntamento per il mese prossimo, ad occhio e croce, d'altra parte conoscendoci già non abbiamo alcuna fretta.
[Da oggi insieme al più bel Gruppo di Lettura di aNobii :-) (e se non il più bello sicuramente il più numeroso)