Non riesco a trovare sintonia con Emanuele Trevi: troppa cultura, indubbiamente (ma non è che W.G. Sebald lo fosse meno, per esempio), ma anchSintonie
Non riesco a trovare sintonia con Emanuele Trevi: troppa cultura, indubbiamente (ma non è che W.G. Sebald lo fosse meno, per esempio), ma anche scarsa empatia. E quindi lo leggo, mi affascina a tratti, mi costringe a innumerevoli ricerche online (per puro piacere di farle, non perché siano utili alla lettura), mi regala scoperte sensazionali (prossima tappa la Chiesa Nuova a Corso Vittorio che io nemmeno sapevo contenesse un Rubens, meno che meno il marchingegno che rivela un altro ovale che raffigura una Madonna con Bambino di epoca antecedente), il desiderio di leggere il commento di Russell Banks ai ritratti di Arturo Patten realizzati proprio a Patten, nel Maine (The Invisible Stranger: The Patten, Maine Photographs, o apre a tradimento cassetti della memoria*, ma poi non riesce a conquistarmi, non è successo nemmeno questa volta, anche se per la seconda volta mi regala ritratti, a sua volta, di artisti che desidero conoscere meglio.
*Come quando una pagina di Wikipedia mi rivela che Amelia Rosselli fu ritratta dalla pittrice Loretta Surico, collega e amica di mia mamma quando era professoressa di Educazione Artistica nella scuola Media Francesco Baracca di Roma a Torpignattara e insegnante di mia sorella Silvia, e che nel 2019 la Biblioteca Nazionale di Roma ha acquisito per il Museo “Spazio ‘900” tutti i ritratti dei poeti da lei realizzati. A volte la vita è proprio un cerchio, anche quando ai sogni e alle favole si unisce la vita vera.
«Racconterò il figlio, ma devo iniziare dal padre.»
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Una bella voce questa di Orecchio, non semplice, erudita, affascinante, così come sono origi«Racconterò il figlio, ma devo iniziare dal padre.»
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Una bella voce questa di Orecchio, non semplice, erudita, affascinante, così come sono originali, ricercate e intriganti queste sei biografie semi autentiche* di personaggi più o meno noti celati dietro nomi fittizi, ma poi svelati in calce e dalla bibliografia che rivela l’autenticità di molte delle vicende e dei virgolettati; fra i quali il padre e la madre dell’autore: padre che fu scrittore a sua volta, fascista convinto, che dopo aver partecipato alla Guerra d'Etiopia e alla Seconda guerra mondiale cambiò radicalmente pensiero ed entrò nella Resistenza con i GAP, e intorno al quale, mi è sembrato di capire, ruotano molte delle opere di Davide Orecchio: io, a questo punto, affascinata dal metodo, dal personaggio e dalla relazione di parentela (il rapporto con il padre, Alfredo che odiò e amò Montale, così come quello con la madre, giornalista, forse la più debole fra le sei biografie, sono spesso la spinta per analizzare se stessi e altre relazioni) intendo leggere presto. Ma non solo quelle dedicate ai genitori, perché anche le altre, la prima è raggelante e commovente, sono di pari valore e interesse. Mi ha stupita scoprire (nonostante l’indizio, ma d’altronde Davide non lo avevo letto prima e non avevo collegato i cognomi) che la sorella Fausta è la fondatrice della magnifica casa editrice illustrata per ragazzi (ma io sono una ragazza cresciuta perché ne possiedo di bellissimi) Orecchio Acerbo.
*(rubo dal blog dello stesso Orecchio - Un regista sovietico esule in Italia è artefice e vittima della propria solitudine. Una ragazza argentina, negli anni della dittatura, mostra ai militari di Buenos Aires un coraggio impulsivo e ingenuo. Un giornalista siciliano matura attraverso il fascismo e una democrazia imperfetta. Un bracciante molisano insegue la redenzione dalla povertà della sua terra. Un diplomatico prussiano trova il proprio destino di filosofo mentre Roma cade, presa dalle truppe di Napoleone. Una poetessa infelice prova a riscattarsi in una scrittura frammentaria ed emotiva - ma non dirò nulla, perché per sapere di più delle vere identità è bello arrivare alle fine e alle note finali dell’autore)...more
Storia di Adelaida, «Che viveva la sua vita come un’insurrezione continua»
Adrián N. Bravi (nella dozzina del Premio Strega 2024 proposto da Romana PetStoria di Adelaida, «Che viveva la sua vita come un’insurrezione continua»
Adrián N. Bravi (nella dozzina del Premio Strega 2024 proposto da Romana Petri, di cui prima o poi dovrò decidermi a leggere la trilogia portoghese) riesce nell’impresa non facile di essere presente nella storia e di scomparire. La storia è quella di Adelaida Gigli, nata nel 1927, figlia di Lorenzo, parente del più famoso tenore Beniamino, pittore durante gli anni del fascismo che preferisce emigrare in Argentina anziché mettere la propria arte al servizio della dittatura.
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Arriva a Buenos Aires, nella quale aveva già studiato pittura da ragazzo e conosciuto la donna che avrebbe sposato e poi portato con sé nella natia Recanati, con moglie e due figli, ignaro di quanto il destino avesse in serbo per la sua famiglia: un’altra dittatura e nuove fughe, vittime delle quali saranno la figlia Adelaida e l’ex marito David Viñas, entrambi appartenenti a una cerchia culturale e politica di sinistra invisa al regime militare, e i loro figli Maria Adelaide e Lorenzo, che purtroppo finiranno per rientrare in quella cifra spaventosa che “ritiene che tra il 1976 e il 1983 in Argentina, sotto il regime della Giunta militare, siano scomparsi fino a 30.000 dissidenti o sospettati tali su 40.000 vittime totali”: i desaparecidos.
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Adrián N. Bravi incontra Adelaida Gigli a Recanati, dove lui stesso italiano per le origini, argentino di nascita e in Italia inizialmente per motivi di studio (Bravi è nato nel 1963), finisce per diventarlo di adozione e restare; introdotto da un amico in casa della donna, scultrice e letterata, ma soprattutto donna indipendente e libera pensatrice, stabilisce con lei negli anni una relazione di amicizia, ma forse ancor più filiale, fatta di discreta presenza, di sintonia e soprattutto di capacità di ascolto.
Bravi, dicevo, riesce a essere presente e a scomparire, a non essere invasivo con i suoi ricordi, che pure esistono e in alcuni frangenti ci vengono offerti come quando ricorda la sua prima vita a San Fernando, dove abitava a poche case di distanza da quella di Adelaida, o circa la sua presenza al suo fianco nei momenti dell’ascolto nella casa italiana, a non essere mai protagonista, ma solo testimone, osservatore. Quello che ne consegue, in queste 144 pagine, in sole centoquarantaquattro pagine, dense e intense, sono non solo il racconto delle due vite di Adelaida Gigli e delle sue due famiglie, quella italiana e quella argentina, quella bonaerense e quella recanatese, ma anche quello della sua arte, della sua memoria (tema ricorrente nelle mie letture ultime), della sua vita intesa come disequilibrio in cui riuscire a trovare il proprio centro in sé, di pagine in cui l’autore, che nella vita fa il bibliotecario all’Università di Macerata, cerca di trovare il modo di mettere ordine, catalogare con sentimento, ricercare, in un fitto reticolo di ricordi, immagini e pensieri, la biografia di un’esistenza, la memoria della sua memoria.
[image] Adelaide ritratta insieme al marito David Viñas
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In me, che già da anni sono “persa” nella ricerca dei miei antenati, questa lettura oltre a suscitare commozione, rabbia, dolore, cogliere la tenerezza misurata e pudica dell’autore, ha spinta ancora una volta a cercare, documentarmi, guardare, perdermi fra le foto di Adelaida e della sua famiglia, fra quelle delle sue opere e quelle del padre, incrociare la sua emozione - no, la mia emozione! - nel video “Homenaje a Adelaida Gigli” che la ritrae fra le foto della sua famiglia, lo sguardo perso nel bianco e nero della sua esistenza spezzata, ma intera - fra i documenti di imbarco da e per l’Argentina, poggiare gli occhi su quella stele che nel “Parco delle Parole Interrotte” ricorda Mini e Lorenzo Ismael e in cui le mani di Adelaida e le parole di Adrián, forse per l’unica volta, si sono toccate per ricordarli e per ricordare che “le parole interrotte / I sentieri scomparsi / Nulla può fermare / La mano che incide / La storia. Neppure qui, mi viene da pensare, in questo luogo, da quest’ermo colle dal quale è stato possibile riuscire a guardare l'infinito oltre la siepe "che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude".
«Nessun autore di fiction si sarebbe azzardato a creare un personaggio favoloso come Jim Thorpe» ha scritto Arch Ward del Chicago Tribune
[image] L'immag«Nessun autore di fiction si sarebbe azzardato a creare un personaggio favoloso come Jim Thorpe» ha scritto Arch Ward del Chicago Tribune
[image] L'immagine di destra è della tenuta con la quale vinse la gara di corsa di decathlon alle Olimpiadi di Stoccolma nel 1912: si accorse negli spogliatoi che gli avevano rubate le scarpe, così corse con due scarpe spaiate trovate in giro e nella spazzatura; anche i calzini, come si può vedere, erano diversi.
Una storia vera che ha dell’incredibile, almeno a partire dal suo epilogo, quando il cadavere di Thorpe, atleta nativo americano pluripremiato in varie discipline e in seguito anche attore e sindacalista, fu rubato dalla moglie durante il funerale tradizionale per essere poi rivenduto a una cittadina della Pennsylvania che prese il suo nome. Quattro e mezza, perché mi ha un po' destabilizzata l'andare avanti e indietro nel tempo, ma cinque per la scoperta di questo personaggio incredibile e per la scrittura di Giagni, che riesce a essere rigorosa, entusiasmante, capace di arricchire una storia già ricca di per sé contestualizzando e spaziando non solo nell'ambito sportivo e culturale della storia degli Stati Uniti, ma anche in quella di altri ambiti e di altri continenti.
«Taciturno, tanto da sembrare costantemente a a disagio nella società statunitense, secondo la moglie Patricia. O chiacchierone, socievole. Una sintesi è nel giudizio di un amico, Albert Exendine: "Tra gli indiani, era uno dei più loquaci. Ma i bianchi parlano un sacco". Thorpe mostrava poi quell'alternanzache ricorre ovunque ci sia un palcoscenico, per esempio un campo di gioco, dove andare in scena. "Quando serve è l'incarnazione del combattente, mentre in tutte le altre occasioni è un tipo gentile e cortese", diceva Walter Lingo, il proprietario della franchigia degli Oorang Indians. E Jack Cusack, suo manager a Canton Bulldogs, osservava: "Sul campo, Jim era un avversario feroce, assolutamente senza paura. Fuori, era un tipo adorabile, con il cuore grande e un buon senso dell'umorismo".
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Burt Lancaster interpreta Jim Thorpe nel 1951 nel film "Jim Thorpe All-American", da noi conosciuto con il titolo "Pelle di rame", in cui lo stesso Thorpe avrà un piccolo ruolo....more
Purdue Pharma OxyContin Crisi degli Oppiodi Epidemia morti negli Stati Uniti Famiglia Sackler
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È tutto raccontato qui (ma raccontNel nome dei Sackler
Purdue Pharma OxyContin Crisi degli Oppiodi Epidemia morti negli Stati Uniti Famiglia Sackler
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È tutto raccontato qui (ma raccontato è un termine che non gli rende giustizia, perché quella di Patrick Radden Keefe è una vera e propria indagine che da giornalistica - inizia sul New Yorker - si è espansa fino a diventare un libro di quasi settecento pagine), dall’arrivo dei Sackler negli USA all’inizio del XX secolo fino alla dinastia e ai risvolti giudiziari dei nostri giorni: avvincente come un romanzo, sia pure molto complesso e incline ad alcuni tecnicismi (sia in ambito pubblicitario - Arthur Sackler coniò per primo il termine “ampio spettro” riferito a un farmaco - che commerciale, che farmaceutico, che finanziario, che giudiziario, che politico), ma appassionante (sì, in alcuni momenti riesce a essere appassionante come un legal drama e la storia dell'arrivo di Isaac Sackler a Brooklyn che con la nascita di Arthur, Mortimer e Raymond segna l'avvio della dinastia, sembra uscito da un racconto di Malamud o da un romanzo di uno dei fratelli Singer) e terrificante se si pensa a quanto loro è stato permesso di fare sotto l’egida della rispettabilità acquisita con la filantropia e grazie alle generose donazioni al mondo delle arti e delle scienze, e a quanta collusione ci fu con chi di fatto doveva controllarli (la Food and Drug Administration, per esempio - “Agenzia per gli alimenti e i medicinali", abbreviato in FDA - è l'ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici, dipendente dal Dipartimento della salute e dei servizi umani degli Stati Uniti d'America - cit. Wikipedia) prima che si decidesse di fermarli e riconoscergli una responsabilità che fu diretta (e non casuale o incidentale) e personale (sia Arthur Sackler che i suoi fratelli che Richard Sackler - di seconda generazione - seguivano e decidevano personalmente rispetto alla produzione e al marketing aggressivo con il quale si chiedeva ai loro agenti commerciali di promuovere il farmaco) nel determinare la più grande crisi ed emorragia interna in termini di perdite di vite umane. Migliaia di vite umane.
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Ecco, questo per capire perché nella quasi totalità dei romanzi contemporanei USA c'è un riferimento alle morti provocate dall'uso di antidolorifici a base di oppiodi (il più delle volte inizialmente assunti per alleviare il dolore provocato da un infortunio o da un incidente sul lavoro) o dall'eroina (il successivo e conseguente passaggio, sia economico che per maggior facilità nella reperibilità) una volta sviluppata la dipendenza dai primi: da quelli che dovevano essere farmaci (e parlo al plurale perché Purdue Pharma fu un apripista nell'utilizzo farmaceutico e degli oppiodi) a tutela dei pazienti affetti da dolori post traumatici e dolore cronico.
Fra le storie raccontate c'è anche quella dell'artista e attivista Nan Goldin, la cui vicenda personale e la carriera sono raccontate anche nel documentario All the beauty and the bloodshed di Laura Poitras, vincitore Vincitore del Leone d'Oro alla 79. Mostra del Cinema di Venezia nel 2022 e ora candidato al Premio Oscar nella sua categoria.
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Le immagini sono tratte dai flashmob organizzati da Nan Goldin e dal gruppo di attivisti PAIN-Prescription Addiction Intervention Now....more
“Promettimi che mi darai la mano il giorno che arriverò da te. Perché, sai, un po’ di paura mi è rimasta. Ora ti saluto, sorellina. Aiutami a vivere, se puoi. E anche a morire. Come ti ho già detto, spero d’incontrarti un giorno. E immagino che sarò molto emozionato”. È il 1990 quando l’editore e poeta fiorentino Daniel Vogelmann scrive le sue Cinque piccole poesie per Sissel. Versi che servono ad elaborare l’assenza/presenza della sorella mai conosciuta, la piccola Sissel, figlia del padre Schulim e della sua prima moglie Annetta, che era a sua volta figlia del grande rabbino Dario Disegni. Toccanti foto le ritraggono insieme negli ultimi momenti di felicità prima del tentativo di fuga in Svizzera, l’arresto per mano fascista, lo smistamento in vari luoghi di detenzione e quindi la deportazione ad Auschwitz dove saranno subito uccise: Sissel aveva otto anni, Annetta quaranta. Era il 6 febbraio del 1944. Su quello stesso convoglio aveva viaggiato Liliana Segre con il padre Alberto. Sarà l’unica a trovare la strada del ritorno, insieme proprio a Schulim, uno degli oltre mille ebrei salvati dal “Giusto” Oskar Schindler. I nomi di madre e figlia risaltano, una accanto all’altra, nelle due stolpesteine collocate quest’oggi in via Manin 3. Due famiglie, unite da questa tragedia, si sono ritrovate lì davanti per fare memoria. Tra i discendenti del rabbino Disegni presenti i nipoti Dario, Giulio e Ariel, con i primi due che sono rispettivamente presidente della Comunità ebraica torinese e vicepresidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Accanto a Daniel Vogelmann il fratello acquisito Guidobaldo Passigli, figlio di Albana Mondolfi seconda moglie del padre. Il 1947 sarà l’anno del loro matrimonio, il 1948 quello della nascita di Daniel.
"Daniel Vogelmann, nato a Firenze nel 1948, esordisce negli anni ’70 come poeta, pubblicando alcuni volumi di liriche, tra cui Fondamentale (1972). Nel 1980 fonda la casa editrice La Giuntina, la cui prima pubblicazione nella collana «Schulim Vogelmann», dedicata alla memoria del padre, fu La notte del premio Nobel Elie Wiesel (tradotta dallo stesso Vogelmann) a cui negli anni si sono aggiunti circa 500 titoli sulla cultura ebraica."...more
A leggerle una dietro l’altra, queste dieci storie scellerate che raccontano di altrettanti personaggi protagonisti secondariPolvere di stelle
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A leggerle una dietro l’altra, queste dieci storie scellerate che raccontano di altrettanti personaggi protagonisti secondari (un ossimoro, epperò) della Roma hollywoodiana degli anni in cui il Cinema italiano e Cinecittà brillavano di luce propria, ci si accorge che non hanno solo la città di Roma e il Cinema in comune, ma che sono tutte legate fra loro da uno o più fili invisibili, da collaborazioni e contiguità che fanno sì che l’uno o più dei protagonisti appaia spesso come comprimario nella storia degli altri.
E così, da Alighiero Noschese a Salvo Randone, da Gualtiero Jacopetti (il più debole, secondo me, ma forse anche a causa di scarsa conoscenza e di un interesse moderato da parte mia nei confronti di quanto raccontato) a Tina Aumont, da Carmelo Bene a Flavio Bucci (la più affascinante e commovente fra le storie, questa che mi ha tirato dentro a questo libro dopo averla letta su Minima&Moralia il giorno della scomparsa di Flavio Bucci), da Gian Maria Volontà a Ugo Tognazzi, da Ciprì e Maresco a Franco Citti, sono tutti ritratti che tratteggiano una società marginale, un’arte che ha trovato nell’assenza di protagonismo la sua espressione migliore, che è riuscita a rappresentare il disagio, lo squallore, la regalità di attori e un’attorialità che trovano nell’attualità della società che li circonda ispirazione, limiti, assonanza, identificazione, anche, soprattutto, quando il Cinema non li ricambia fino in fondo, anche quando è nel Teatro che alcuni di loro trovano la vera e massima espressione e adesione.
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Ne emergono ritratti di vite poste al limite della sofferenza e dell’autodistruzione che si innestano in maniera scellerata con la vita politica italiana - che sia il secondo dopoguerra di Jacopetti che precede il boom, o che sfiori la dolce vita felliniana con Salvo Randone e con Carmelo Bene, o che affondi le mani nell’Italia piduista di Noschese o in quella democristiana di Volonté, per poi ritrovarsi, quasi tutti insieme nell’attacco politico e sociale di Petri nel corrosivo La proprietà non è più un furto - in cui a farla ancora una volta da protagonista è una Roma anche lei scellerata, immaginifica, che è contemporaneamente maschera pasoliniana, felliniana, hollywoodiana, sontuosa e decadente, corrotta, vergognosamente bella.
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Interessante e affascinante, nel complesso un buon libro, nonostante Sansonna a tratti non rifiuti di cedere alla tentazione di ostentare conoscenze e tecnicismi rendendone meno fruibile la lettura, e nonostante lo stato di grazia, l’apice secondo me del narratore, lo tocchi proprio con il capitolo dedicato a Flavio Bucci, Re Lear di Passoscuro, Don Bastiano da Canale Monterano, pazzo gogoliano, che avevo letto online.
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«La vecchiezza è una Roma senza burle e senza ciance, che non prove esige dall’attore, ma una completa, autentica, rovina.» [Boris Pasternak, In morte di Majakovskij]...more
Alcuni autori per me sono porti sicuri, la certezza di approdare a letture capaci di ristorare, nutrire, offrire un rifLady of the Flies
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Alcuni autori per me sono porti sicuri, la certezza di approdare a letture capaci di ristorare, nutrire, offrire un rifugio dove poter deporre le armi del vivere frenetico quotidiano e lasciarmi trasportare altrove. Eppure quella di Helen Humphreys, scrittrice e poetessa canadese nata in Inghilterra (luoghi dove, da appassionata lettrice di Virginia Woolf, spesso letterariamente ritorna) di cui non ringrazierò mai abbastanza il gruppo di lettura che me l’ha fatta scoprire ormai molti anni fa e l’editore Luca Bergamini per la passione con la quale ce ne aveva parlato invogliandoci a leggerla, non è mai una lettura piana, perché dietro alla sua prosa poetica e dietro alla semplicità delle sue storie, si celano sempre il tumulto dei sentimenti, gli interrogativi sull’esistenza, le battaglie sostenute per accettarne i conflitti e le diversità. È così che anche questa volta, dopo avermi già condotta nell’Inghilterra della Seconda Guerra Mondiale, nella Francia di Adele e Victor Hugo, nel Canada di Cani selvaggi e delle diverse sfumature dell’amore e dell’appartenenza, e nelle pieghe del suo dolore privato sublimato in Notturno, non ho esitato a lasciarmi portare in Scozia, là dove i salmoni saltano controcorrente nei fiumi, per farmi raccontare la storia di Megan Boyd, la misteriosa vita di Megan Boyd, tra i più importanti e influenti costruttori di esche a mosca per salmoni, amica personale del principe Carlo d'Inghilterra e insignita di una delle più alte onorificenze britanniche dalla regina Elisabetta.
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Verrebbe da chiedersi come possa interessare qualcuno la vita di Megan Boyd (di cui, senza sorprendermi, non avevo mai sentito parlare), me lo sono chiesto più volte durante le prime pagine del romanzo, domandandomi, soprattutto, come potesse interessare me, che di pesca (e al salmone, nello specifico) ne so come di fisica quantistica e il cui interesse nei confronti di questa - disciplina, sport, attività? - è pari allo zero.
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Ma la capacità di Helen Humphreys è quella di saper cogliere un baluginìo dove altri vedono il buio, dove lei stessa vede solo il buio, e accendere una fiammella: anche nella vita di Megan Boyd, nata nel 1915 nel Surrey e poi da bambina trasferita con la famiglia vicino il fiume Brora, nelle Highlands scozzesi, di cui non si sa praticamente nulla, se non che sin dall'infanzia e sulle orme del padre, che era un gillie (chi fa da accompagnatore a una battuta di caccia o di pesca), inizierà a costruire mosche per i pescatori della zona, e che favorita da un’abilità fuori dal comune, da un’indole incline alla solitudine che la renderà piacevole trascorrere intere giornate nel suo cottage al tavolo di lavoro a intrecciare piume, fili d’argento e ami da pesca, finirà per diventare una leggenda in tutto il Regno Unito e anche oltreoceano; che amava guardare il mare dalla finestra del suo cottage, le danze di campagna, vestire da uomo e… e poi Helen Humphreys immagina, e dopo una prima parte del romanzo in cui rende partecipe il lettore dei suoi dubbi, del suo desiderio di raccontare quella vita di cui si sa poco, dopo aver esitato su quale strada prendere, imparato a costruire lei stessa mosche per la pesca al salmone (fra le quali il famoso amuleto celeste), percorso le strade di campagna e dei villaggi che la stessa Megan percorreva per andare a consegnare il latte o recarsi nelle sale da ballo, dopo aver guardato il mare dallo stesso rifugio dal quale Megan in tempo di guerra controllava le coste durante i suoi turni di osservatore per l’esercito, dopo aver cercato di immedesimarsi in lei fino a trovare la sua voce, ci regala, nella seconda parte del romanzo, la vita immaginata di Megan Boyd, che servì il futuro re d'Inghilterra e morì cieca in una casa di riposo dopo una vita intera trascorsa a realizzare mosche per la pesca del salmone con una richiesta continua di ordini che era ormai da tempo impossibile evadere. Talmente immaginata da sembrare vera, talmente autentica da scomparire del tutto fra le righe, talmente viva da guizzare come il manto argenteo dei salmoni quando saltano fuori dall’acqua: di quei salmoni per cui Megan costruiva esche dai nomi seducenti e dalle piume esotiche, ma che lei stessa, amante dei cani che l’accompagneranno per tutta la vita e della natura, nell’ultima contraddizione della sua esistenza, non avrebbe mai pescato.
E anche questa è Helen Humphreys, ancora una volta poesia in prosa, ancora una volta capace di adattare la sua scrittura alla materia del suo scrivere: perché se con La verità, soltanto la verità, svelava al lettore di aver cercato, nel cesellare quella che a posteriori appare un'opera di fine oreficeria, di utilizzare quasi esclusivamente parole e frasi pronunciate da Adèle Hugo e Charles Sainte-Beuve nei loro scritti, e che al di là di poche eccezioni gli avvenimenti del romanzo ricalcavano quelli realmente accaduti, qui il suo lavoro è stato esattamente l'opposto: ha intessuto di fili d'argento inesistenti e colorate piume esotiche, i pochi fatti di una vita rimasta segreta, raccontato il riserbo di un'esistenza intravisto in un baluginìo improvviso.
In 2013, filmmaker Eric Steel produced and directed Kiss The Water, an 80-minute documentary on Megan Boyd's fly tying life. The film was shown at both the 2013 Tribeca Film Festival and the Edinburgh Film Festival. In the film, David Profumo, the fishing editor of Country Life magazine who was apprenticed with Boyd one summer during his youth, said:
«She had the most delicate feminine hands; her creations were the Fabergés of the fishing world. You could say she wove a certain kind of magic.» [David Profumo, Kiss the Water] [da Wikipedia.org]
Machine Without Horses, il titolo originale del romanzo, fa riferimento al nome di un ballo tradizionale scozzese, quelli che Megan Boyd amava ballare.
Quando tutti vanno in una direzione e solo tu, o quasi, vai nell'altra, non sempre pensi a te stessa come a una mosca bianca, perSlightly out of focus
Quando tutti vanno in una direzione e solo tu, o quasi, vai nell'altra, non sempre pensi a te stessa come a una mosca bianca, perché è proprio in situazioni come questa, in cui molti hanno espresso (e molto ben argomentato), parere negativo, che ti trovi a interrogarti se la tua natura non sia più quella di pecora nera. La verità è che a me questo libro è piaciuto davvero, pur con tutte le difficoltà di lettura già espresse da molti: è un pastiche letterario, è vero, non è un romanzo in senso stretto, non è una biografia, non è un saggio storico, non è una raccolta di testimonianze; ma è di tutto un po', pur essendo, principalmente, un romanzo. Ma è proprio quest'anima impura, che del romanzo ha nel suo nucleo l'impianto - e lo testimoniano i tanti dialoghi, già di per sé "invenzione" - ad avermi appassionata.
Non conoscevo la storia di Gerda Taro, nata Gerta Pohorylle a Stoccarda nel 1910, ebrea e comunista, morta nel 1937 a Brunete, dove si era recata per uno dei suoi reportage fotografici, durante la guerra civile spagnola, schiacciata da un carro armato mentre seguiva i miliziani; morta di una morte orrenda, perché non morì subito, ma fu trasportata tenendosi le viscere fra le mani nel più vicino ospedale da campo, giudicata spacciata, pietosamente imbottita di morfina mentre, nel delirio prima della morte, a ventisette anni non ancora compiuti, continuava a preoccuparsi per le sorti della sua macchina fotografica. La Leica. Non sapevo che fosse diventata un'icona - per tanti motivi, a partire dal fatto che fosse donna - che fosse la compagna di Robert Capa (e anche di lui, in fondo, sapevo pochissimo), ungherese - il vero nome era Endre Ernő Friedmann - morto in Indocina nel 1954, dopo aver messo il piede su una mina, sulla collina dove era salito al termine di una battaglia per scattare le ultime foto -, così come non sapevo nulla delle polemiche nate intorno alla foto del miliziano che muore e al successivo e recente e incredibile ritrovamento della valigia contente le migliaia di negativi delle foto scattate dal fotografo, da Gerda e da Chim, che mette fine alla stessa.
Sapevo poco o nulla, e Janeczek , con il suo raccontare “leggermente fuori fuoco”, come “Slightly out of focus”, il titolo del diario-romanzo in cui Capa racconta della sua partecipazione alla Seconda Guerra Mondiale con il quale cita Life, che commentò quanto le [sue] foto fossero “slightly out of focus (leggermente fuori fuoco)” a causa del tremito della mano del fotografo, ha saputo descrivermi un mondo trascinandomi dentro per cerchi non sempre concentrici, è vero (ma tutti, a modo loro, satelliti di quel pianeta unico e capace di creare una sua propria orbita, che è stata Gerda Taro), attraverso le tre partiture che insieme compongono la vita della fotografa narrate dal punto di vista delle tre persone a lei vicine (ma anche attraverso le storie degli altri fotografi David-Chim-Seymour, Fred Stein, Henri Cartier-Bresson e del fratello Cornell dello stesso Capa), in varie fasi della sua breve esistenza: l’amica militante di Lipsia Ruth Cerf, Willy Chardack, il chirurgo e spasimante borghese, Georg Kuritzkes, il fidanzato rivoluzionario (come sono definiti dalla stessa autrice), permettono di realizzare un ritratto a tutto tondo della ragazzina che fu a Lipsia e della giovane donna che diventò a Parigi (risoluta e volitiva, mi ha fatto pensare molto a Gilgi, la giovane donna viennese raccontata nel suo romanzo da Irmgard Keun), della fotografa che si spinse sul campo di battaglia in Spagna, della donna idealista innamorata della vita e forte oppositrice delle ingiustizie sociali che lottò per farsi accettare in situazioni che erano ancora appannaggio esclusivo degli uomini trascinata dai suoi ideali, della vulcanica creatura che regalò a sé e a Endre un nome, Robert Capa, che divenne marchio esclusivo, per una coppia, prima, e per un fotoreporter di guerra, poi, tra i più grandi che la fotografia mondiale ricordi. Ma è anche il modo, che ho apprezzato particolarmente, per far entrare il lettore, non solo in una vicenda privata, raccontandone in maniera lineare gli avvenimenti, ma anche quello per permettergli di allargare lo sguardo e osservare molto di quello che, contemporaneamente, succedeva altrove: in Germania, in Italia, in Francia, negli Stati Uniti: in ogni luogo, vicino o lontano, dove Gerda Taro era riuscita a propagare la propria irresistibile luce. Ecco, mi è sembrato un libro molto bello, difficile da definire per la sua costruzione narrativa ostica e inconsueta e per la scrittura impervia e ricercata dell’autrice, ma affascinante, documentato oltre ogni immaginazione (sei sono gli anni di cui l’autrice ha avuto bisogno per portare a termine le sue ricerche e le fasi di scrittura), che nasce anche da un’esigenza non solo di approfondire la storia di una protagonista dimenticata della guerra civile spagnola, ma anche per poter colmare, in parte, una necessità privata di cui preferisco non anticipare nulla. Ma sono cosciente di essere - al di là del premio Strega - una voce fuori da coro, che si è presa parecchi mesi da quando l'ha finito per scriverne in maniera più diffusa, ma che ci teneva a farlo.
Qui uno stralcio di una bella intervista a Helena Janeczek
«La ragazza con la Leica potrebbe essere definito un romanzo storico o una biografia romanzata: come si è svolto lo studio su fonti e documenti e quanto tempo ti ha richiesto?
Credo che “biografia romanzata” possa essere una descrizione fuorviante per il lettore, cosa che in maniera più contenuta vale forse anche per “romanzo storico”. “Biografia romanzata” designa un libro che si prende la libertà di romanzare la vita di un personaggio, senza però scostarsi troppo dalla traccia cronologica e contenutistica che la biografia “secca” gli fornisce. Con “romanzo storico” si può intendere tutto ciò che rientra nella definizione manzoniana di “componimento di storia e d’invenzione”, ma spesso il termine fa venire in mente una narrazione molto classica che, senza fratture temporali e prospettiche, senza divagazioni che non servano a dipingere lo sfondo storico, immerge il lettore nel corso degli eventi. Qui invece i tre narratori sono coprotagonisti a tutti gli effetti e, in più, non sono personaggi d’invenzione: quindi calarsi nei loro punti di vista ha richiesto una quantità enorme di ricerca in più. Ho lavorato per sei anni a questo libro, senza in mai smettere di fare verifiche. Mi sono basata sulle biografie di Taro e di Capa, ho consultato libri e archivi fotografici, saggi storici, diari e memorie, ogni tipo di materiale che si trova in internet (audio, video, vecchie agende telefoniche, ecc.). Ho viaggiato per archivi (Lipsia, Roma) e per visitare i luoghi che racconto. La fedeltà alle fonti è rigorosa, l’invenzione riguarda piuttosto la struttura, le prospettive, la combinazione della storia di Gerda con le storie dei suoi amici.»
[image] Robert Capa e Gerda Tardo, Parigi 1935. Foto di Fred Stein
Fra le splendide tavole di ispirazione liberty di Lucrèce (Lucrezia Buganè, bolognese) e le parole misuraImmersione totale
Apnea
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Nuotare
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Fra le splendide tavole di ispirazione liberty di Lucrèce (Lucrezia Buganè, bolognese) e le parole misurate di Lorenza Tonani, entrare in punta di piedi nella vita di Virginia a Kensington, accarezzare con lo sguardo il faro di St. Ives, osservare lo scrittoio dove, in piedi, scriveva nella sua stanza di adolescente, sfogliare delicatamente la prima copia del 22 Hyde Park Gate News, accendersi all'improvviso nelle discussioni del giovedì sera con il circolo letterario nella casa di Bloomsbury.
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E poi studiare, sempre studiare, leggere, aprire la mente a nuovi orizzonti, il corpo e lo spirito a nuovi viaggi: l'Italia, la Grecia, la Francia.
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E poi soffrire, morire, sempre morire, e ancora soffrire: il distacco, la solitudine, la sua fragilità psichica, e infine la guerra, la paura, il buio, Leonard sempre al suo fianco: "Voglio dirti che lo sanno tutti: se qualcuno avesse potuto salvarmi, quello saresti stato tu". Poi l'acqua.
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Splendida nevrotica, arguta, fiera, delicata, amatissima Virginia, creatrice su questa terra dell'unica, vera, poesia in prosa. "Scrivere è come esistere", leggere è come vivere, respirare, luce.
[Questa domenica mattina, nella stanza tutta per me.]...more
Ieri, 2 novembre 2019, ci ha lasciati Alberto Sed, e con la sua scomparsa il numero di quanti hanno potuto vedere con i propri occhi e narrare l’inenaIeri, 2 novembre 2019, ci ha lasciati Alberto Sed, e con la sua scomparsa il numero di quanti hanno potuto vedere con i propri occhi e narrare l’inenarrabile si assottiglia sempre di più. Noi possiamo leggerlo, però, e continuare a essere così la sua, la loro voce, parlandone e spingendo altri a leggerlo.
La memoria è uno strano luogo in cui gli eventi possono accadere all'infinito.
Anche quest'anno, come ogni anno dai tempi di Anobii, ho letto un libro sulla Shoah per ricordare, commemorare, onorare, attraverso il Giorno della Memoria, i sei milioni di ebrei uccisi dai nazisti. Cerco di farlo, perlopiù, attraverso le testimonianze dei sopravvissuti, facendo risuonare dentro di me le loro voci. Ho il timore, forse ancor più il terrore che il timore, di quello che succederà quando anche l'ultima fra queste voci si sarà spenta, quando resteranno solamente le parole scritte, ma non sarà più possibile guardare nel fondo dei loro occhi, spostare lo sguardo sul numero marchiato a fuoco sulle loro braccia, ascoltare ancora una volta, nelle loro parole, lo sgomento, il terrore, l'incredulità, il dolore. Anche per questo, convinta che la forza delle parola scritta e della testimonianza sia comunque importante, perché indelebile, continuo a leggere, nella speranza che quando toccherà alla seconda linea, ai loro parenti e amici, agli studiosi agli intellettuali e agli storici raccogliere il testimone, il passaggio sarà ben saldo, la presa non sarà distratta, né l'ascolto sarà mai superficiale o indebolito dal trascorrere del tempo. Perché, come scriveva Primo Levi, se è accaduto potrà accadere di nuovo.
Qualche mese fa, in tutt'altro contesto, ho incontrato Roberto Riccardi e ascoltato il suo breve cenno a questo libro, il suo racconto sulla sua conoscenza con Alberto Sed, che era passato a salutare poco prima della presentazione e che non vedeva da un po' di tempo. Mi ha incuriosita l'idea di un colonnello dell'Arma, qual è Riccardi, scrittore di gialli, alle prese con quello che forse è il più grande delitto compiuto dall'umanità. Dico "delitto" non a caso, perché sono fra le prime parole che usa, forse già in prima pagina, e questo mi ha colpita profondamente, perché Riccardi è un Carabiniere, ma è anche uno scrittore, e non usa a caso questo temine, le parole sono importanti: è stato un delitto, prima di tutto, poi tutto il resto, tutti i termini che siamo soliti associare alla Shoah; così come gli ebrei preferiscono usare il termine Shoah (catastrofe, distruzioni) a quello Olocausto (bruciato interamente); le parole sono importanti.
Storia di Alberto Sed, dunque, del ragazzino di quindici anni (oggi novantenne), che sfuggì con la sua famiglia (madre e tre sorelle, orfano di padre) ai rastrellamenti del ghetto del 16 ottobre, ma che fu catturato poco tempo dopo in un magazzino nei pressi di Porta Pia dove si nascondevano insieme ad altri parenti.
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Alberto Sed e la sua famiglia, la madre Enrica e le sorelle Emma, Angelica e Fatina: da Auschwitz tornarono solo lui e Fatina, l'ultima a destra.
Storia di Alberto Sed che giunto ad Auschwitz fu separato dalla madre e dalle sorelle (la mamma e la più piccola furono uccise subito, perché ritenute inadatte al lavoro) visse l'orrore per un anno e mezzo della sua vita (da Auschwitz fu evacuato a Nordhausen attraverso la drammatica marcia sulla neve di cui altri hanno già scritto e alla quale in pochi sopravvissero) e che al suo ritorno (fra i pochissimi minori, racconta Riccardi tornati a casa da Auschwitz e fra i pochissimi sopravvissuti della sottosezione del campo Dora-Mittelbau), ritrovò solo la sorella Fatina che ad Auschwitz, nella zona femminile, aveva assistito all'uccisione della sorella Angelica (lasciata sbranare dai cani per divertimento) ed era stata lei stessa sottoposta da Mengele ai suoi bestiali esperimenti.
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Storia di Alberto Sed, al quale Riccardi la fa raccontare in prima persona, in cui non c'è mai una parola di odio, né di vendetta, né di rivincita: l'unica sua rivincita, a chi gli chiedeva in suo nome di tornare ad Auschwitz da uomo libero (e dove mai è voluto tornare) è stata la sua bella famiglia: la moglie Renata, le tre figlie, i nipoti e, ora, anche i pronipoti, e con loro la vita che è stato capace di ricominciare a vivere, il coraggio che è riuscito a trovare, dopo anni di silenzio, per raccontare la sua storia, per far sì che la sua voce, unita alle tante altre dei tanti altri sopravvissuti, non finisse per essere dimenticata.
Storia di Alberto Sed, che è stato un numero, ma poi è tornato alla vita.
Il cuore degli uomini, anche se è ferito, calpestato, resta il fondo di un prato. Gli bastano l'acqua e il sole per fiorire. Gocce quante ne occorrono, certo, e i raggi adatti a dargli luce. Ma l'erba non può trasformarsi in sabbia....more
Perché dove Michela Murgia stronca, pretestuosa e presuntuosa, io acquisto (soprattutto se, come in questo caso, ero già iCinque stelle a prescindere.
Perché dove Michela Murgia stronca, pretestuosa e presuntuosa, io acquisto (soprattutto se, come in questo caso, ero già intenzionata a leggere).
Poi, nella realtà oggettiva, forse non saranno cinque stelle, e a fine lettura spiegherò anche i motivi.
È solo nella comprensione e nel rispetto della diversità fra maschio e femmina che forse si potrà arrivare all'uguaglianza di genere. Ed è per questo, secondo me, che questo libro ha un senso: perché si rivolge alle bambine (ma nessuno esclude di poterlo leggere anche ai bambini) per raccontargli le vite straordinarie di donne che hanno osato inseguire i propri sogni: in ogni epoca, in ogni paese e in ogni campo senza mai arrendersi. Se un appunto posso fargli (ed è per questo che dicevo che le stelle effettive non sono cinque, ma quattro) è quello di aver edulcorato troppo le storie: non ci sono né morti violente come nella realtà di alcune di loro, né esili (se non mitigati dal successo), né soprusi che non siano stati annullati dai risultati ottenuti. Ecco, per quanto ci si rivolga a bambine (e a bambini) credo sia giusto non mistificare la realtà con l'omissione di fatti che fanno parte delle storie delle cento donne raccontate: le mamme e i papà servono anche questo, a rendere comprensibili fatti che da soli non riuscirebbero a decifrare. Per il resto trovo che le polemiche che hanno accompagnato la pubblicazione di questo libro siano state inutili e pretestuose.
"Con la morte di Togliatti [Palmiro] si chiude una fase e non se ne apre nessun'altra" - Giancarlo Pajetta
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Ieri parlando di mimose, del perché "Con la morte di Togliatti [Palmiro] si chiude una fase e non se ne apre nessun'altra" - Giancarlo Pajetta
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Ieri parlando di mimose, del perché proprio le mimose nel giorno in cui si festeggia - ricorda - celebra (sì, forse celebra è il termine più adeguato) la Giornata Internazionale della donna, ho ripensato a Un'altra parte del mondo di Massimo Cirri. Perché Cirri ce la racconta bene la storia della mimosa, scelta dalle donne della Costituente, Rita Montagnana in primis - anche moglie di Palmiro Togliatti e madre di Aldo, ma soprattutto combattente comunista e prima donna del partito, esule per decenni insieme al marito e al figlio in giro per l'Europa fino all'approdo (parzialmente felice) in Unione Sovietica - Teresa Mattei e Teresa Noce. La scelsero come simbolo perché, semplicemente, fioriva a marzo, perché era profumata e allegra, facile da trovare e per nulla costosa, al contrario delle violette che qualcuno (probabilmente un uomo) aveva incautamente proposto. Ma questa, quella del libro di Cirri, è soprattutto la storia di Aldo, detto Aldino, figlio di Palmiro Togliatti. E ripeto "figlio di" perché è un marchio che si porterà dietro e che terrà sulle spalle, come una condanna, per tutta la vita. Vita che termina pochi anni fa, nel 2011, in una casa di cura per malattie mentali alle porte di Modena. Di lui si sa pochissimo, perché da un certo punto in poi della sua vita, (dopo essere saltuariamente ricomparso in stato confusionale, ma sempre prontamente ricondotto in seno alla famiglia, che non mancherà mai di essere al suo fianco, assistita dagli amici più intimi e dal partito, che lo hanno protetto e reso invisibile fino alla fine), per una strana combinazione chimica che mischia timidezza a follia, desiderio di anonimato e solitudine a mitezza eccessiva, ha iniziato a sparire. Progressivamente, ritirandosi all'inizio in maniera bizzarra, visibile, forse anche incomprensibile, fino a sparire del tutto dalla scena pubblica dopo i funerali del padre. Chi era Aldo Togliatti? Un giovane promettente, un uomo colto (viene educato in Russia nella scuola di Ivanovo, destinata ai figli dei dirigenti di tutti i partiti comunisti del mondo), un figlio legatissimo alla madre (su cui anche la fine del matrimonio dei genitori si abbatte in maniera devastante) ma anche al padre al quale è unito da un'ammirazione schiacciante, di quelle che ti impediscono di confrontarti con lui, di quelle che per tutta la vita ti mettono di fronte al fatto che non si può essere migliori del Migliore.
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Massimo Cirri (storico conduttore radiofonico di Caterpillar su Radio2, ma anche psicologo, terapeuta e autore teatrale e letterario), cerca di raccontarcelo a modo suo: mette in campo la sua ironia, la sua capacità di analisi (è il suo ambito professionale originario, quello della decifrazione degli stati di animo che si agitano in una mente complessa - sia pure in assenza fisica del paziente), il suo amore per la ricerca, che è grande. Così come è grande, ed è palpabile, la tenerezza che si fa largo fra le righe e le sue parole: bisogna conoscerlo, è vero, per capire quanto amore e desiderio di protezione nei confronti di Aldino ci sia in Massimo Cirri, bisogna averlo ascoltato alla radio almeno qualche volta per inquadrarlo, per capire che dietro a quello che può talvolta sembrare cinismo o, peggio ancora, superficialità, si nasconde invece una sensibilità umana fuori dal comune, un'attenzione che lo rende speciale, speciale e commovente. Come quel "noi", tanto spesso usato alla radio, che lo porta di volta in volta a immedesimarsi con i suoi interlocutori, e che può sembrare un vezzo da uomo di spettacolo, (presente anche fra queste pagine), che è invece il suo modo per mettersi dalla parte degli altri, il suo modo per entrare nella storia. E quindi un po' indaga, un po' ricerca, un po' intervista e viaggia alla ricerca di Aldino, sulle tracce di Aldino, e un po' inventa, sicuramente, ma lo fa sempre sul filo della credibilità, anche quando ci regala dialoghi e interpretazioni che possono sembrare strampalati. E così facendo, raccontando e indagando, ci apre una finestra su un mondo misconosciuto: quello di un'Italia che è dovuta fuggire all'estero per poter porre le basi dell'Italia futura, quella delle tante storie dei militanti comunisti, soprattutto i dirigenti, perseguitati e fuggiti in Spagna, o in Francia, o in Russia, dove erano accolti ma anche chiamati a combattere in giro per il mondo per la causa comunista (aiutati, sì, ma anche spiati, giudicati, a volte giudicati e quindi condannati all'isolamento e alla rovina), quella delle donne che hanno posto le basi della Costituente e, infine, quella dei tanti figli, come Aldino, privilegiati, per molti versi, ma sballottolati insieme a loro e cresciuti per la causa al di là di ogni personale interesse o convinzione, laddove, molto spesso, si desiderava e si sognava di avere solo mamma e papà che ti abbracciassero. E invece no, si finiva per vivere e scoprire "un'altra parte di mondo", è vero, ma quel mondo, una volta subiti il crollo e l'abbandono del proprio - la famiglia, il partito comunista, l'Unione Sovietica - se si era troppo fragili, trovo sensibili, come sicuramente lo era Aldo Togliatti, si poteva finire per inventarselo e proteggerlo, a discapito del resto del mondo, fino a a trovare, a essere sicuro di aver trovato, "un'altra parte del mondo" dentro di sé.
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Ci sono alcune ripetizioni, è inevitabile, ma questi sono i primi appunti per un commento sul libro, presi durante e a termine lettura. Erano rimasti là, nelle bozze dell'iPhone, ma hanno il pregio delle impressioni a caldo.
"Solo una storia triste"
Che non è inteso come mondo geografico, per quanto buona parte della storia (e delle storie) si svolga in in anni in cui l'Unione Sovietica era chiusa all'Occidente, ma come un'altra parte del mondo soprattutto interiore, forse sociale. Mi piace quel parlare al plurale, quel "noi" che spesso usa Cirri per amplificare l'immedesimazione, per sentirsi (e noi con lui) a volte Aldo Togliatti, altre Anita o Teresa, altre ancora parte di un tutto - i giovani pionieri, i comunisti all'estero, i figli di questi ultimi sballottati un po' qui è un po' là come pacchi postali - che non è un "noi" che diventa coro prendendo le distanze dagli eventi, ma, al contrario, un "noi" che diventa appartenenza, immedesimazione, partecipazione. La storia di Aldo Togliatti, Aldino, il figlio sconosciuto (ai più) di Palmiro Togliatti e Rita Montagnana, il figlio nascosto al mondo o forse, meglio, che si nasconde dal mondo, è dolorosamente bella e commovente, toccante al punto da lasciare il desiderio incolmabile di stringerlo a sé, da bambino "abbandonato" dai genitori nel collegio russo Ivanovo (esuli e perseguitati in Italia, i comunisti del nostro paese, e quelli di tutto il mondo, in una sorta di diaspora intellettuale venivano accolto dalle grandi braccia della Madre Russia e di lì spesso, come i genitori di Aldo, partivano alla volta di nazioni come la Spagna per combattere nella guerra civile), ma ancor più da adolescente sempre più introverso e silenzioso o, ancora, da uomo maturo, prima, e da anziano, poi, che finirà per trascorrere trent'anni fra le mura di Villa Igea, a Modena.
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"[...] Così il signor Pini va a trovare Aldo a Villa Igea, ogni martedì e a volte anche il sabato. Porta i giornali e le sigarette, sempre Stop senza filtro, i cambi di biancheria e quello che serve per vestire. Sono abiti comuni, niente di che. Ma Aldo Togliatti lascerà in tutti il ricordo di una persona elegante. È una sintonia con l'ambiente di Villa Igea, un'osmosi tra il luogo e la persona che ci si ritrova dentro? O qualcosa di più personale, insito. Aldo Togliatti un tratto di eleganza ce l'ha naturale. È l'eleganza dei miti, quelli che passano delicati anche attraverso i vestiti che portano. Si muove leggero, dicono, nei corridoi e nel giardino. Una leggerezza dei passi e dei modi. Per non dare fastidio, non premere troppo su dove ci si è trovati a essere. Una leggerezza che ci viene da mettere in corrispondenza con una voglia di scomparire. Di mettersi agli occhi del mondo. Una delicatezza lieve, presumiamo, in opposizione alla pesantezza che Aldo Togliatti si trascina addosso."
"Mimosa, bella mimosa, per chi sono fiorite sui tuoi alberi d'oro a grappoli le pepite?"
[Gianni Rodari, premio Mimosa albero d'oro]...more
L'aver assistito, qualche sera fa, in una sala stracolma di gente nella suggestiva cornice del MAXXI, nell'ambito della rassegLa Recherche de Noantri.
L'aver assistito, qualche sera fa, in una sala stracolma di gente nella suggestiva cornice del MAXXI, nell'ambito della rassegna Premio Strega, alla presentazione de La scuola cattolica (da qui detta LSC, nel rispetto dell’uso delle sigle tanto care all’autore), l'aver ascoltato Edoardo Albinati (EA) parlare del suo romanzo e leggerne alcuni brani con la sua voce, la sua intonazione, la sua ironia (laddove era necessario che ci fosse), è stata un'esperienza unica, capace di aggiungere valore a un'opera che per me, di per sé, già ne aveva moltissimo. L'errore di molti, sottolineato una volta di più dalle risposte che Albinati ha fornito ad alcuni intervenuti, è stato quello di identificare tour court il narratore de LSC con il suo autore; errore che ha portato molti a formulare giudizi e ad attribuire pensieri e affermazioni (che il più delle volte andavano a interpretare pensieri e affermazioni dell'epoca) come propri dell'autore. L'opera è largamente autobiografica, ma non è un'autobiografia, i fatti narrati sono reali, ma non tutti i personaggi e gli eventi lo sono, i personaggi, quasi sempre, sono ispirati a persone realmente esistite e incontrate da Albinati, ma non tutti corrispondono interamente a persone reali; così come è altrettanto vero che il narratore, Edoardo, è sì Edoardo Albinati, ma nel contempo non è interamente lui. Insomma, come dice e scrive in maniera piuttosto chiara, a scanso di equivoci (eppure hanno equivocato in molti), è tutto vero, fuorché quello che ha inventato, e quello che la memoria, per sua natura fallibile, ha modificato o interpretato a suo modo. Insomma questa è, se vi pare, un'opera vera ma anche inventata. Un'altra difficoltà, propria di chi si è accostato a LSC perlopiù come ci si accosta a un romanzo, è stato accorgersi che LSC non è un romanzo (o perlomeno non lo è in senso tradizionale), decidere di abbandonare ogni velleità (o attesa) di struttura prevedibile (e in tal senso vedere disattese le proprie aspettative) e decidersi a lasciarsi prendere per mano da EA e seguirlo in quelli che lui ha sensatamente chiamato "i suoi ragionamenti". Perché è proprio quello che fa, per buona parte delle quasi milletrecento pagine de LSC, il nostro Edoardo: ragiona; ricorda, rielabora, studia, approfondisce, ipotizza e, per l’appunto, ragiona ancora. Ragiona sui perché, ma ancor più che sui perché (che per sua stessa ammissione mai sarà possibile arrivare a comprendere) sugli scenari che nel 1975 fecero da sfondo al massacro del Circeo, il brutale fatto di cronaca che per efferatezza sconvolse il pacifico quartiere Trieste (QT), Roma e l'Italia tutta. Ma forse è più giusto dire il contrario, perché se l'Italia tutta, e Roma, ripresero poi il loro ritmo, quello del quartiere Trieste, il pacifico e borghese quartiere Trieste, fu segnato e interrotto per sempre. Per arrivare a scrivere del Delitto del Circeo (DdC), diceva l'altra sera Albinati (che pure ne scriverà "solo" per una manciata di pagine), serve una connessione sociale, geografica e temporale: non è compito della letteratura - aggiungeva - spiegare, ma approssimarsi, insistere, avvicinarsi. Ed è quello che fa, cercando (e riuscendo, ma solo per chi ha voglia di seguirlo nei suoi lunghi ragionamenti) di avvicinarsi al centro decentrato del suo ragionare, per centinaia e centinaia di pagine, di disquisire di borghesia, di famiglia, di amore, di politica e di fascismo, di sesso e femminismo, di educazione maschile e di virilità e violenza e pensiero maschile, e infine, ma non in ultimo, di religione attraverso il ritratto di quella "scuola cattolica" del titolo, il San Leone Magno (SLM), che incarnava il maître à penser comune a quella società borghese che si stava sgretolando senza accorgersene, e alla rappresentazione di quell'habitat e di quell'humus che hanno fornito alla capitale d'Italia dirigenti, amministratori, politici, funzionari statali, in anni che sono stati a dire poco molto complicati. Insomma, per dire che quella borghesia non interessa solo il QT o Roma, ma che è stata uno specchio il cui riflesso ha avuto un raggio di incidenza molto più ampio di quello che può sembrare. Non solo un romanzo, dunque, non solo un memoir, non solo un saggio, piuttosto (come l'ha definito qualcuno con un termine che scelgo di usare e faccio anche mio) uno zibaldone dentro il quale Albinati, nel suo errare narrativo, sceglie di usare un po' tutte le forme a disposizione senza farne sua nessuna, se non forse quella della scelta dello stile, del gergo, colloquiale, che fa assomigliare i suoi ragionamenti, a volte, a quelli di un amico colto, piacevole, ma un po' pedante. Ciononostante, muovendosi per cerchi concentrici molto ampi, attira lentamente nella sua tela fino a catturare, volente o nolente, il lettore e a costringerlo alla resa. La resa, ecco: c’è chi ha ceduto per noia, chi per irritazione, chi ha continuato per sfinimento, chi l’ha letto con curiosità, chi, come me, ha subito il fascino di una storia che viene da lontano (Albinati inizia a scrivere nel 2006 narrando i fatti che riguardano la propria educazione alla scuola cattolica nella seconda metà degli anni Settanta) ma che si avvicina a grandi passi alla propria, che mette le sue radici in un humus che è stato anche il mio; ed è per questo che mi permetto di considerarmi spettatrice informata sui fatti, di farmi forte della mia conoscenza del QT, e della borghesia del QT, essendone stata parte integrante e attiva per quasi trent’anni, a partire (prima - dal 1966 al 1970 - ero davvero troppo piccola ), fin dall’anno successivo al DdC, cioè dal 1976 al 2006, ed avendo abitato nel nucleo centrale del quartiere stesso, cioè fra Piazza Istria, Via di Santa Costanza (dov’era il San Leone Magno, all’incrocio con Via Bolzano), Via Gradisca, Corso Trieste, Viale Gorizia, Via Parenzo, nella mia amatissima Via Tolmino; di aver frequentato la messa di don Salari al San Leone Magno per un lungo periodo, ma soprattutto quella di Natale, a mezzanotte, a Sant’Agnese - con il baretto e il circolo bocciofili annessi alla parrocchia - di aver passeggiato guardando gli stessi palazzi, gli stessi negozi, incrociando (forse) le stesse persone. Ed è per questo, forte di questo stesso vissuto, sia pure differito di dieci anni, che posso dire di essere stata folgorata dall’esattezza, quasi radiografica, con la quale descrive l’amore e il matrimonio nella borghesia romana, con la quale ricostruisce i rapporti fra genitori e figli, con la quale non enuncia necessariamente il suo pensiero, ma si fa portavoce di un pensiero collettivo, e interpreta, fa suo (una sorta di coro?) quello che era il pensiero, l'atteggiamento, il modus pensandi di quella classe sociale, di quell'educazione, di quel mondo che lui va a descrivere e a rappresentare, di esserne stata parte integrante ma al tempo stesso osservatrice doppiamente privilegiata, poiché la mia famiglia beneficiava dell’abitare nel QT in mezzo a una borghesia di cui non faceva economicamente parte, quasi come un corpo estraneo (ma non era sicuramente l’unico), come una perla finita per caso in mezzo a una manciata di diamanti. Scrive per non parlarne più, dice Albinati, scrive per tacitare e archiviare definitivamente le domande che da quando il DdC sconvolse il QT, iniziarono ad affacciarsi nella sua mente, che accompagnarono la sua crescita di adoloscente, prima, e la sua esistenza, poi, di uomo adulto, di scrittore e intellettuale, di professore, a sua volta, e quindi di addetto alla formazione (che per sua scelta da molti anni prosegue non più negli istituti tecnici, ma nel carcere di Rebibbia), che proprio come quella di Angelo Izzo, Andrea Ghira e Gianni Guido (i tre assassini che nella villa di famiglia di uno di loro massacrarono, uccidendola, Rosaria Lopez e ridussero in fin di vita Donatella Colasanti), ebbe luogo nel medesimo periodo storico, nel medesimo luogo geografico, nella medesima scuola, cattolica, del San Leone Magno. Del perché, poi, proprio in quella generazione, in quella scuola (e non solo, quindi, nei tre assassini del Circeo) la violenza si manifestò con un’escalation impressionante, di delitti e rapine, rapimenti e violenze spesso gratuite e inaudite, per poi non ripresentarsi più, come si fosse trattato di una meteora precipitata dal nulla sul QT, forse non si saprà mai dire; e forse, allora, l’unica spiegazione plausibile, sarà quella di un temporale improvviso, violentissimo (metafora che Albinati ha usato per descrivere l’incidente che sconvolge la vita della famiglia Rummo e che io dilato usandola per indicare il potere deflagatorio del delitto del Circeo), che ha costretto la società tutta a interrogarsi, a prendere atto della sua crisi, e a interrogarsi ancora. Che tutto questo interrogarsi, poi, non abbia prodotto granché è tutta un’altra storia.
Ed ecco, nonostante i pensieri di Cosmo in calce mi abbiano sfinita, questa sono io, in ginocchio (sembra, ma in realtà ero seduta) in religiosa e devota attesa, al cospetto del sommo.