Chalandon scrive un romanzo à la Almodovar, che stupisce, stranisce, ma colpisce anche questa volta. Come ha scritto un’altra leDonne sull’orlo
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Chalandon scrive un romanzo à la Almodovar, che stupisce, stranisce, ma colpisce anche questa volta. Come ha scritto un’altra lettrice, si pensa di leggere una storia di malattia e maternità e si finisce per trovare il coraggio, l’amicizia e la forza di andare avanti a dispetto di tutto e con tutte le forze: anche a costo di decisioni estreme e imprevedibili. Nel mezzo, oltre alla scrittura sempre avvincente dell’autore, c’è lo spazio per la pietas umana, la solidarietà, la voglia di vivere, per quella gioia feroce che consente, a dispetto di tutto, di restare aggrappati alla vita. Meno politico di altri suoi romanzi (ma la politica si affaccia spesso anche qui), di tutti gli altri suoi romanzi, questo romanzo interamente al femminile, ma solo se si pensa che la politica sia solo quella dei governi e delle guerre: esistono altri governi e altre guerre, come quelle che si combattono nelle case, sul lavoro, ogni giorno per vivere, e non per sopravvivere.
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Della protagonista, che si chiama Jeanne ed è una timida libraia parigina (Chalandon attraverso il suo personaggio ci regala anche dei delicati fugaci omaggi letterari), mi piace molto la descrizione della quarta di copertina dell'edizione francese: “Jeanne est une femme formidable. Tout le monde l’aime, Jeanne. Libraire, on l’apprécie parce qu’elle écoute et parle peu. Elle a peur de déranger la vie. Pudique, transparente, elle fait du bien aux autres sans rien exiger d’eux.” Ma è anche Jeanne come Jeanne d’Arc, e chissà che la scelta del nome non sia anche un omaggio a una donna che per la Francia è simbolo di coraggio e di resistenza.
Francia profonda, quella confinante con il ricco Lussemburgo, ma che allunga lo sguardo fino alla Germania; quella della LDalla parte sbagliata
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Francia profonda, quella confinante con il ricco Lussemburgo, ma che allunga lo sguardo fino alla Germania; quella della Lorena, che è terra di operai, di socialismi, ma anche di rigurgiti neo nazisti, di xenofobia, di Front National.
«Dalle nostre parti, agosto è il mese migliore. La stagione delle prugne. Verso le cinque del pomeriggio, la luce è più bella di tutto l’anno. Dorata, intensa, dolce eppure piena di freschezza. Già autunnale, attraversata da striature verdi e blu. Quella luce siamo noi, È bella ma non dura, annuncia già il seguito. Racchiude in sé il declino, le giornate in cui di punto in bianco inizia a fare freddo.»
Una famiglia socialista, di impegno condiviso quotidianamente e di pomeriggi e serate trascorsi in sezione o ad attaccare manifesti, che si spezza quando la madre muore di cancro e il padre, un operaio che lavora in Ferrovia, resta solo con due figli ancora piccoli da crescere: Frédéric, il maggiore, detto Fus come Fußball, la passione per il calcio che li unisce, e Gillou, il più piccolo, lo studio, il campeggio, le amicizie, la politica che arriva a dividerli con l’adolescenza.
«Ecco come giustificare in meno di dieci minuti il fatto di frequentare l’estrema destra. E come rassegnarsi all’evidenza che il proprio figlio stesse dall’altra parte. Non con Macron, ma con i peggiori bastardi. Gli amici dei negazionisti, la feccia.»
È soprattutto una storia d’amore tra padre e figli, “Quello che serve di notte” ma è anche un piccolo spaccato delle contraddizioni e della frattura sociale di una nazione (che potrebbe essere anche la nostra) che cerca di opporre gli ideali alla rabbia e alla delusione, il racconto dell’impotenza che spezza, ci spezzerà come promette il lancio pubblicitario, il cuore. Laurent Petitmangin esordisce a sessant’anni con una storia piccola, solo centotrentadue pagine, ma tese e che non concedono pause, una storia sul perdono difficile da accordare, sulla dedizione che non basta a salvare, sullo smarrimento e l’incredulità che impediscono di riconoscersi, di trovarsi. Ma è una storia potente, quella dell’amore di un padre, anche se può sembrare una “cosuccia da niente”, salvifica anche se non può mettere in salvo dalla ferocia della vita, una storia di responsabilità. E di amore, l'ho già detto?
«Siamo sempre responsabili di ciò che ci succede? Era una domanda che mi facevo non per Fus, ma per me. Non pensavo di meritare tutto quello che stavo passando, ma forse era solo una mia idea, forse me lo meritavo eccome, perché non avevo fatto quello che avrei dovuto fare.»
Come ho avuto modo di dire a mia sorella e a mio fratello dopo questo GdL familiare*, se avessi letto questo per primo [e non Ninfee Nere, come in reaCome ho avuto modo di dire a mia sorella e a mio fratello dopo questo GdL familiare*, se avessi letto questo per primo [e non Ninfee Nere, come in realtà è stato] sarebbe rimasto figlio unico.
*Mio fratello e io abbiamo molto apprezzato NN, mentre mia sorella l'ha odiato. Dopo esserci accapigliati, circa un paio di anni fa abbiamo deciso di leggerne uno insieme: io avevo proposto Il quaderno rosso, mio fratello questo. Al meglio dei tre decideremo chi aveva ragione su Bussi :-)...more
Festeggio il Premio Nobel leggendo gli ultimi due titoli che mi mancavano, felice perché so che ne sta per arrivare un altro.
“Le rimproveravo di esserFesteggio il Premio Nobel leggendo gli ultimi due titoli che mi mancavano, felice perché so che ne sta per arrivare un altro.
“Le rimproveravo di essere ciò che io, in procinto di emigrare in un ambiente diverso, cercavo di non sembrare più.”
“In certi momenti aveva in sua figlia, di fronte a lei, un nemico di classe.”
Il rapporto di Annie Ernaux con la madre, per come ce lo racconta lei stessa, è segnato da una profonda frattura sociale e generazionale: la madre è di famiglia operaia nata e vissuta in una piccola cittadina di provincia, mentre la figlia sarà non solo “quella che avrà studiato” e che metterà fra loro la distanza della lingua e della cultura, ma anche, a sua volta, un prodotto del Sessantotto, che amplificherà tutte le distanze che i figli da sempre, in maniera del tutto naturale, mettono fra loro e i genitori che per forza di cose sono nati e vissuti in un’epoca precedente. Resta in ogni caso, anche quando Ernaux stessa (citando ne Il posto Jean Genet- “Scrivere è l’ultima risorsa quando abbiamo tradito” - ma anche come si evince dalle due citazioni che ho riportato qui sopra) ammetta di sentirsi rispetto ai genitori colei che in qualche senso li ha traditi, anche laddove non rinnegherà mai il proprio percorso sociale e culturale, l’insofferenza per la tenacia con la quale sono sempre rimasti legati ai riti e alle abitudini dettate dalle umili origini, la tenerezza per una madre e un padre così lontani da lei, il tentativo di conoscere per conciliare le proprie esistenze, le proprie differenze, le mancanze che li hanno allontanati, la conoscibilità delle proprie origini....more
Nel tempo ho maturato la decisione che i romanzi di Sorj Chalandon per me sono tutti cinque stelle a prescindere: per l'impegno sociale e civile, per Nel tempo ho maturato la decisione che i romanzi di Sorj Chalandon per me sono tutti cinque stelle a prescindere: per l'impegno sociale e civile, per la rabbia mai spenta, per la passione con la quale abbraccia i temi che nella sua carriera da reporter di guerra ha deciso di fare suoi e di non abbandonare mai, per la splendida persona che è....more
A Biarritz, fra il 22 aprile e il 27 maggio 1985, si fumava, beveva e mangiava roba buona. (Tre stelle e mezza con baffi)
[imVerità a cui nessuno crede
A Biarritz, fra il 22 aprile e il 27 maggio 1985, si fumava, beveva e mangiava roba buona. (Tre stelle e mezza con baffi)
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Una recensione, da leggere dopo: per quanto non sveli il finale, a mio avviso, racconta troppo
Liquidato precipitosamente con una frase a effetto, mi sento in obbligo di fare un paio di integrazioni, a mio avviso molto interessanti, scaturite dopo la discussione di qualche settimana fa con il gruppo di lettura. Quello che a prima impressione può sembrare solo un pretesto banale per dare il via a una escalation (inizialmente surreale) di accadimenti attraverso i quali riflettere sulla condizione di solitudine in cui ci si può trovare vedendo messe in discussione le proprie certezze, o anche sul fatto che possano esistere, in astratto, punti di vista differenti degli stessi eventi dai quali possono scaturire due verità, in realtà è il punto di rottura dal quale Carrère parte per riassumere, attraverso le azioni e le reazioni del protagonista, le caratteristiche e i comportamenti di una persona che manifesta sintomi psicotici gravi - forse schizofrenia paranoide, affermano due delle mie amiche (l’una psicoterapeuta e l’altra medico) che hanno partecipato al gdl - e in questo senso, permettere al lettore di assistere al processo irreversibile di quanto sta accadendo nella mente del protagonista: e questo sarebbe prodigioso, se non fosse che quanto detto sopra non permette a chiunque di comprenderlo, e chi anche lo abbia compreso affermi di essersi trovato più a riflettere sul caso clinico che a godere dell’aspetto letterario (aspetto e giudizio, quest'ultimo, che condivido in pieno).
Interessanti, anche due curiosità emerse sempre durante la discussione: la storia narrata da Carrère ricorda “pericolosamente” il corto di The Big Shave (1967) di Martin Scorsese, ma noi ricordiamo anche che Emmanuel Carrère, ancora prima di essere uno scrittore, è stato critico cinematografico e dunque, il suo, potrebbe essere un omaggio non troppo velato al regista italoamericano. Lo spunto narrativo, invece, e da qui l’accostamento a Philip Dick, sembra proprio provenire da questo brano tratto da "Io sono vivo, voi siete morti”, dedicato al visionario scrittore americano, in cui Carrère narra di un piccolo e quasi insignificante episodio, che sembra poter generare in Philip Dick lo stesso corto circuito raccontato ne I Baffi:
….si avviò per il corridoietto buio che portava al bagno. Entrando cercò a tentoni la cordicella della luce. «Tutto bene?» gridò Kleo dalla sala da pranzo. «Sì, sì» rispose lui. Ma non trovava la cordicella. Eppure sapeva che penzolava lì accanto alla porta, sulla sinistra. Era assurdo. Con le braccia tese in avanti e le dita aperte si mise a mulinare le mani nell’oscurità. Fu preso da una specie di panico, come se intorno a lui tutto fosse scomparso. A forza di agitarsi, finì per sbattere la testa contro lo spigolo dell’armadietto dei medicinali. Le boccette di vetro allineate sul ripiano urtarono fra loro tintinnando. Lui imprecò. La voce stranamente lontana di Kleo ripeté: «Tutto bene?». Poi aggiunse: «Che cosa è successo?». Lui borbottò, probabilmente non abbastanza forte perché lei potesse sentirlo, che non riusciva a trovare la maledetta cordicella della luce... e all’improvviso si rese conto che non c’era nessuna cordicella. C’era e c’era sempre stato un interruttore a parete, sulla destra della porta. Lo trovò senza difficoltà e lo premette con un colpo secco. La lampadina che pendeva dal soffitto si illuminò. Lui guardò il bagno con aria diffidente. Tutto sembrava normale, non pulitissimo ma normale. C’era della biancheria stesa ad asciugare sopra la vasca. Uno scarafaggio attraversava il pavimento piastrellato. Fu tentato di schiacciarlo, ma si trattenne. Aprì l’armadietto dei medicinali facendo scomparire la sua immagine riflessa nello specchio, tirò su una boccetta caduta, prese quella delle pillole per il mal di stomaco, ne inghiottì una con un bicchiere d’acqua, poi, dopo aver spento la luce molto lentamente, in modo da non sentire il clic dell’interruttore, tornò in sala da pranzo. Kleo aveva finito di sparecchiare e stava lavando i piatti in cucina. Lui le si avvicinò pensando fra sé e sé: da dove sbuca fuori il ricordo di una cordicella della luce? Una cordicella precisa, che pende a un’altezza precisa, in una posizione precisa. Non brancolavo a caso, come farei in un bagno sconosciuto. No, cercavo una cordicella che ho tirato tante volte: abbastanza da determinare un automatismo nel mio sistema nervoso involontario. «A te non è mai successo» chiese «di cercare una cordicella della luce che non esiste? Al posto dell’interruttore?». «Per questo ci hai messo tanto?» disse Kleo senza smettere di lavare i piatti.” “Dove mi posso essere abituato a tirare una cordicella della luce?». «Non lo so. Non se ne vedono quasi più. Ormai tutti hanno gli interruttori a parete. Sarà un ricordo d’infanzia che ti è tornato in mente». Poi se ne andò a dormire, e Phil rimase da solo con il gatto Magnificat nella sala da pranzo, che a quell’ora diventava il suo ufficio. Mise il disco del Liederkreis, op. 39 di Schumann recentemente inciso da Fischer-Dieskau, e si sedette alla scrivania su cui Kleo aveva appena rimesso la macchina da scrivere. Passò un’auto, dopodiché non si sentì più nessun rumore. Era il momento della giornata che preferiva. Il primo Lied della raccolta, il più bello, parlava di un uomo che era in viaggio da molto tempo e che camminava nella neve pensando con nostalgia alla sua patria e alla sua casa. A dire il vero, nel testo la neve non era menzionata, ma il disco faceva parte di un cofanetto in cui c’era anche Il viaggio d’inverno di Schubert, e sulla copertina erano disegnati dei fiocchi di neve, il che difficilmente avrebbe indotto l’ascoltatore a immaginare un paesaggio soleggiato. Pensò, e la cosa lo fece ridere, alla possibilità di comporre una poesia, e poi un Lied, a partire da un’esperienza come quella che aveva vissuto poco prima: un tizio entra nel bagno di casa sua e, invece di premere l’interruttore, cerca una cordicella della luce che non esiste. Poco ci mancò che si alzasse e andasse a svegliare Kleo per cantarle, sul motivo del Lied appena finito e imitando la voce di Fischer-Dieskau, gli ultimi versi della poesia che aveva improvvisato: Es gab keine Lampenschnur... Non c’era nessuna cordicella della luce... Se non un Lied, poteva forse ricavarne una storia. Di solito, di fronte a piccoli incidenti del genere, le persone dicono: «Che strano», e non ci pensano più. Lui, invece, era di quelli che continuano a pensarci, che cercano dei significati in circostanze che probabilmente non ne hanno, che vogliono dare una risposta a ciò che è già azzardato considerare una domanda. Il suo lavoro consisteva proprio nell’immaginare quel tipo di domande.” “Aveva già scritto diverse storie costruite su uno schema simile, in cui un tizio si accorge da un particolare insignificante che qualcosa non va. In una di queste il tizio entrava nel suo ufficio e si rendeva conto che tutto era stato leggermente ritoccato: difficile dire cosa, ma tutto – il posto dei mobili e i mobili stessi, la disposizione della stanza, la faccia della segretaria –, sì, tutto era cambiato. Alla fine si scopriva che un servizio al tempo stesso ufficiale e occulto entrava periodicamente in azione per ricostruire la realtà –un po’ come si restaura un palazzo – per ragioni di sicurezza alquanto vaghe, che Phil non si era preoccupato più di tanto di sviluppare. In un altro racconto il tizio, la sua famiglia, i suoi amici, convinti di abitare in una cittadina americana degli anni Cinquanta, vivevano in realtà in un’immensa scenografia, una ricostruzione storica esposta in un museo del ventitreesimo secolo. Un po’ come gli indiani delle riserve, solo che loro erano all’oscuro di tutto: gli uomini del ventitreesimo secolo andavano in massa a vederli al museo, ma un sofisticato sistema ottico li rendeva invisibili ai loro occhi. A un certo punto il protagonista se ne rendeva conto e tentava di convincere i suoi concittadini. Naturalmente lo prendevano per pazzo. Dick adorava scrivere scene come questa, esporre minuziosamente l’argomentazione del tizio che ha capito la verità a cui nessuno crede, ed è consapevole che lui per primo, sentendo un discorso del genere, non crederebbe a una sola parola.
Per concludere, I Baffi, Emmanuel Carrère, non solo se l’è scritto, ma anche sceneggiato e girato: nel 2005.
Questo è il libro bellissimo (e durissimo) di un autore che nel giro di pochissimo tempo ho imparato a conoscere e ad amare. È la storia Era mio padre
Questo è il libro bellissimo (e durissimo) di un autore che nel giro di pochissimo tempo ho imparato a conoscere e ad amare. È la storia di una abuso psicologico, di una coercizione, anche fisica, che avrebbe potuto annientare il bambino che Sorj Chalandon è stato. C'è tanto dolore in queste pagine, ma anche la "solita" enorme compassione e tenerezza che l'autore riesce a mettere nelle storie che narra, anche quando, questa volta, parla di sé e della sua famiglia, travolta dalla mitomania del genitore.
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Ho appreso pochi giorni fa dalla bacheca Facebook dello stesso Sorj (unico autore straniero al quale abbia osato chiedere l'amicizia) che in Francia è uscito il film, e io spero ne sia stato fatto un grande film, perché è una storia che merita di essere raccontata, anche attraverso le immagini, con tutta l'attenzione possibile.
Questo memoir, in qualche modo e con tutte le differenze del caso (Offutt è molto più incline a dissezionare e a raccontare in maniera cronachistica quanto avvenne, mentre Chalandon ne fa letteratura e romanzo), trova il suo gemello dall'altra parte dell'oceano in Mio padre, il pornografo di Chris Offutt. ...more
E io mi commuovo, leggendo per la prima volta di Bartleby e di suo fratello Bernard.
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Ho iniziato a leggere Mio fratello, «Gradisci un Bartleby?»
E io mi commuovo, leggendo per la prima volta di Bartleby e di suo fratello Bernard.
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Ho iniziato a leggere Mio fratello, di cui avevo letto un breve articolo, forse, o un estratto online (non ricordo più dove né cosa) per cercare mia sorella, convinta che l’avrei trovata fra le parole che Daniel scrive per ricordare il fratello Bernard morto in seguito a un intervento chirurgico. Ho trovato mio padre, invece, fra le parole di Pennac, e anche il suo essere riuscito, sorprendendomi, a dare un nome a qualcosa che da molto tempo, nello specchietto retrovisore della macchina, o camminando per la strada, succede anche a me:
A volte, per la strada, lo vedevo in lontananza. La figura lenta e fragile, quell’impermeabile che sembrava posato direttamente sulla pelle... Non avevo bisogno di verificare. Sapevo benissimo che non era lui. Eppure l’avevo visto.ogni tanto lo vedo ancora. Si chiama “lutto mimetico”, esiste, è consolatorio, è rassicurante.
E poi l’incontro con Bartleby, mai avvenuto, sempre rimandato, ora così presente, così vivo. Non so perché Pennac abbia voluto preferire questa traduzione francese indicata nelle note (o meglio, lo spiega riferita alla famosa frase Preferirei di no - I would prefer not to - so solo, però, che ogni parola tradotta, ogni sensazione regalata da ogni singola parola tradotta in italiano da quella traduzione è stata perfetta.
Se ne stava in piedi, come l’ultima colonna di un tempio in rovina, solitario e muto in mezzo alla stanza deserta....more