Storie, al contempo, legate e slegate Un libro che non può certamente definirsi ro.”..storie inverosimili e assolutamente comuni.”
odori silenzi sogni
Storie, al contempo, legate e slegate Un libro che non può certamente definirsi romanzo ma neppure raccolta di racconti.
Difficilissimo per me commentare questo libro. (Mi chiedo se sia solo mio questo bisogno di trovare un nesso, qualcosa che riesca ad impacchettare tutto, un filo che conduca da una storia all’altra...)
Difficilissimo far capire a chi non ha letto il libro e vorrebbe leggerlo di cosa stiamo parlando.
Ci provo.
Uno: dove Il grande contenitore è il territorio della Slesia nella zona dove la Polonia confina con la Germania e la Repubblica Ceca. Boschi, fiumi e soprattutto quella linea immaginaria che solo gli uomini vedono. In alcuni casi la natura si adatta, gli alberi ad esempio ma non gli animali:
” Il confine è molto vecchio, separa da secoli uno stato dall’altro. Non si è fatto modificare tanto facilmente. Gli alberi si sono abituati a crescere lungo il confine, come gli animali. Mentre gli alberi, però, tenevano conto del confine e non lasciavano il loro posto, gli animali nella loro stupidità se ne infischiavano.”
I confini, però, in queste storie sono anche baluardi metaforici delle donne e degli uomini che attraversano queste pagine.
Due: chi Una pletora di personaggi che ruota attorno alla cittadina polacca di Nowa Ruda (vicino alla quale l’autrice realmente risiede e che si trova, per l’appunto al confine).
”E se esistessero persone senza biografia, senza passato e senza futuro, che si manifestano al prossimo sotto forma di un eterno adesso?”
R. Marta, Tal dei Tali, Marek Marek, Kummernis di Schonau, il monaco Paschalis, Peter Dieter, Agnieszka, Franz Frost, Lew il veggente...
Ognuno offre una storia.
Ad esempio c’è Marta , la vicina di casa che appare solo in primavera, riempie i silenzi con storie di altri non raccontando mai di sé Oppure; l’altro vicino, Tal dei Tali, che ripete sempre lo stesso racconto, quello della morte suicida di Marek Marek un uomo che già dal nome ripete i suoi sbagli e perde la sua battaglia contro l’alcolismo.
C’è poi una narrazione parallela che trasporta in un passato remoto. Si tratta di un'agiografia (“La vita di Kummernis di Schonau, redatta con l’aiuto dello Spirito Santo e della superiora dell’ordine delle benedettine a Kloster dal monaco Paschalis”) di una donna con il volto di Cristo e venerata come martire. Leggenda che Olga Tokarczuk rielabora (https://it.churchpop.com/santa-vilgef...) aggiungendo la figura del monaco Paschalis che vuole essere riconosciuto come donna.
Tre: come Il libro è suddiviso in paragrafi di diversa lunghezza e titolati in modo da rintracciarne il contenuto. La voce narrante non ha nome. A volte sono storie a sé, a volte non si concludono per poi essere riprese più avanti.
Quattro: Sognare I sogni sono ricorrenti e centrali come si intuisce già dall’incipit:
” La prima notte feci un sogno immoto. Sognai di essere pura vista, puro sguardo, e di non avere né corpo né nome. Ero sospesa in aria al di sopra della valle, in un punto indefinito dal quale vedevo tutto, o quasi. All’interno di questa visione mi spostavo, ma senza muovermi da dov’ero. O meglio, era il mondo che mi si sottometteva via via che il mio sguardo lo inquadrava, avvicinandosi e allontanandosi così da farmi vedere tutto o soltanto i dettagli più minuti.”
I sogni sono spesso un'occasione per dare un significato al nostro presente.
Infine: ricompongo. Riflessioni sul titolo
Qual é il luogo in cui ci sentiamo più sicuri se non la propria casa? Se anche la intendiamo come metafora, la casa è il nostro Io, lo spazio dove abbassiamo le difese:
"A casa propria ci si limita a esistere, non bisogna lottare con nulla né conquistare nulla. Non bisogna controllare le coincidenze ferroviarie, gli orari dei treni, non c’è bisogno di entusiasmi e disillusioni. Ci si può mettere da parte, ed è allora che si vedono più cose."
Alla fine della lettura mi accorgo di avere tra le mani i pezzi di un puzzle che sta al lettore ricomporre facendo attenzione alla sfumature. Sfumature chiare come il giorno e sfumature scure come la notte: bifronte come l’esistenza stessa.
”Solo il sonno chiude una realtà vecchia e ne apre una nuova, un uomo muore e se ne sveglia un altro. È quell’indistinto spazio nero tra un giorno e l’altro il vero viaggio.”
------ Concludo condividendo due passaggi che mi hanno commossa perché questa Signori e Signore è Letteratura! (nascondo con lo spoiler solo per questioni di spazio) Essere un fungo (view spoiler)[Se non fossi un essere umano, sarei un fungo. Un fungo indifferente, insensibile, dalla pelle fredda, viscida, duro e delicato al tempo stesso. Crescerei sugli alberi abbattuti, cupo e ostile, sempre in silenzio, e con le dita da fungo bene aperte ne succhierei gli ultimi residui di sole. Crescerei su ciò che è morto. Penetrerei in quel torpore fino alla nuda terra – e là le mie dita da fungo si arresterebbero. Sarei più piccola di alberi e arbusti, ma svetterei sui mirtilli. Sarei effimera, ma lo sono anche come essere umano. Non avrei alcun interesse per il sole, non lo seguirei con lo sguardo, non aspetterei più di vederlo sorgere. Desidererei solo l’umidità, esporrei il mio corpo alle nebbie e alla pioggia, condenserei su di me l’aria umida. Non distinguerei la notte dal giorno, perché che senso avrebbe? Rimarrei immobile di proposito per ore, senza crescere né invecchiare, fino a raggiungere la gelida convinzione di dominare non solo gli uomini, ma anche il tempo. Crescerei solo nei momenti cruciali del giorno e della notte – all’alba e al crepuscolo, quando ogni altra cosa è occupata a svegliarsi o a addormentarsi. Sarei generosa con tutti i parassiti; donerei il mio corpo a lumache, larve e altri insetti. Non nutrirei alcun timore, non avrei paura della morte. Che cosa è mai la morte, penserei, l’unica cosa che possono farti è strapparti da terra, tagliuzzarti, friggerti e mangiarti. (hide spoiler)]
La cometa (view spoiler)[Di punto in bianco mi venne in mente un’idea bizzarra e grandiosa: che siamo esseri umani per dimenticanza e disattenzione. Che in verità, nell’unica realtà vera, siamo creature coinvolte in un’immensa battaglia cosmica, che forse è in corso da secoli e chissà se avrà mai fine. Ne scorgiamo solo sporadici riverberi in certe levate sanguigne della luna, negli incendi e nelle burrasche, nella caduta delle foglie gelate in ottobre, nel volo terrorizzato di una farfalla, nel pulsare irregolare del tempo, che prolunga all’infinito le notti e si arresta di colpo ogni mezzogiorno. Io sarei dunque un angelo o un demone inviato nel caos di una vita con una missione che si sta compiendo malgrado tutto o che ho completamente dimenticato. Questo oblio fa parte della guerra, è un’arma dell’altro schieramento, un’arma con cui mi hanno colpita, sicché ora giaccio ferita e sanguinante, esclusa per un momento dal gioco. Di conseguenza ignoro quanto sia forte o debole, non mi conosco, non ricordo nulla, perciò non oso neppure cercare in me questa debolezza o questa forza. È una sensazione straordinaria – nel profondo di me stessa, in un angolo riposto, essere tutt’altra persona da quella che avevo sempre creduto. Ma non provare ansia, soltanto sollievo. Non sentire più la stanchezza che permeava ogni istante della mia vita. (hide spoiler)]...more
Otto sorprendenti racconti della scrittrice americana Molly Antopol. Non mi aspettavo questa qualità di scrittura e soprattutto la capacità di legare Otto sorprendenti racconti della scrittrice americana Molly Antopol. Non mi aspettavo questa qualità di scrittura e soprattutto la capacità di legare così bene passato e presente. C’è un filo, in fatti, che rimane teso ed quello di mettere in scena personaggi di origine ebraica che si sono trasferiti oppure nati negli Stati Uniti. Come, ad esempio, Howard Siegel, protagonista del primo racconto che dà il titolo alla raccolta. Proprietario di quattro lavanderie e da poco separato, conosce una donna ucraina. Caso vuole che anche lui abbia radici in quel paese che non solo non ha mai conosciuto ma a cui ha negato di appartenere...
Molto bello anche La nonna mi racconta una storia” che narra della resistenza di bande adolescenziali in Bielorussia...altro che Cappuccetto rosso!
”Alcuni dicono che la storia inizia in Europa, e senza dubbio tua madre li interromperebbe per dire che inizia a New York, ma solo perché non riesce a immaginarsi il mondo prima della sua nascita. E sì, so bene che secondo te la storia inizia in Bielorussia, perché te l’ha detto tuo nonno. L’ho sentito descrivere quelle grandi berline nere che sfrecciavano lungo Pinsker Street. Sono stata sposata con quell’uomo per quasi sessant’anni, e so bene come si comporta con te – fa sembrare ogni parola un segreto. Ma lui non c’era nemmeno. Era già con la sua brigata, e io, che c’ero, non ricordo di aver avuto paura – non sapevo cosa stesse succedendo, neanche quando bussarono alla porta. Neanche quando ci trascinarono fuori con le valigie strapiene che si aprivano spargendo vestiti dappertutto, o quando ci gridarono con il megafono di metterci in strada con il bestiame, neanche allora sapevo. Avevo tredici anni.”...more
“In generale, credo che gli esseri umani siano capaci di tutto, quando scatenano i propri istinti.”
“Nel 1941 Márai pubblicò Az igazi [La donna gius “In generale, credo che gli esseri umani siano capaci di tutto, quando scatenano i propri istinti.”
“Nel 1941 Márai pubblicò Az igazi [La donna giusta], un romanzo composto di due lunghi monologhi; per l’edizione tedesca del 1949 (Wandlungen der Ehe) ne aggiunse un terzo, scritto durante il suo esilio italiano; nel 1980 quest’ultimo fu da lui rielaborato e dato alle stampe, insieme all’epilogo, con il titolo Judit... és az utóhang [Judit... e un epilogo]. La presente edizione raduna per la prima volta le quattro parti del romanzo.”
Così si legge nel risvolto di copertina dove, per altro, il libro viene riassunto in tutto il suo svolgimento (!!!). Quello che, tuttavia, nessuna sinossi può tradire è l’atmosfera di questa storia.
Il primo pensiero leggendo questo libro riguarda la sua struttura: Marika, la prima moglie, è colei che dà il via ad un flusso di parole che, apparentemente, formano un dialogo, salvo poi rivelarsi come monologo in quanto reggono unicamente sulla sua voce. Allo stesso modo accade nei racconti degli altri testimoni che vanno così a formare un cerchio narrativo. Così, dopo Marika è il turno del marito, Peter; poi di Judit, seconda moglie ed, infine, il suo amante, un batterista ungherese trasferitosi a New York (il meno riuscito, a mio avviso).
Una storia di passioni, tradimenti in tutte le sfumature dell’amore ma soprattutto Budapest e una riflessione tra le diverse classi sociali. L’adozione dei diversi punti di vista permette all'autore di analizzare gli stessi eventi da differenti prospettive. Molto interessante è l'inserimento di un personaggio-anello, uno scrittore di nome Lazàr che, per buona parte della storia, condiziona alcune decisioni. Così dall'intreccio di esistenze minime con le loro scelte, decisioni, sbagli ed abbagli, lo sguardo si allarga e si riflette sulla Storia, sulla società e manifesta il desiderio della Letteratura di avere un ruolo che non è quello del giullare di corte il cui compito è solo intrattenere. Lazàr, tuttavia, crederà di avere una missione e che la scrittura sia l’arma rivoluzionaria necessaria a mantenere l’ordine. Tuttavia, come non esiste la persona giusta( “e in ognuna c'è un pizzico di quella giusta, ma in nessuna c'è tutto quello che ci aspettiamo e speriamo. “), allo stesso modo non esiste una Letteratura giusta.
”Che hai da guardarmi con quell'aria allarmata? Mi chiedi che cosa disprezzo sopra tutto. La letteratura? Quel tragico malinteso chiamato amore? O semplicemente il genere umano?... E' una domanda difficile. Non disprezzo niente e nessuno, non ne ho alcun diritto. Ma, per il tempo che mi resta da vivere, ho anch'io intenzione di abbandonarmi a una passione. La passione per la verità. Non tollererò di sentirmi raccontare menzogne, né dalla letteratura, né dalle donne, e non mi permetterò in alcun modo di mentire a me stesso. “
“Non cercare dov’è questa o quella cosa, prova invece a vedere l’insieme, l’unità del tutto, come se contemplassi un dipinto, o una bella ragazza, s “Non cercare dov’è questa o quella cosa, prova invece a vedere l’insieme, l’unità del tutto, come se contemplassi un dipinto, o una bella ragazza, sforzati di vedere tutto insieme, certo non è facile, ma se ci riesci, guarderai il mondo in modo diverso.”
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Indice Tulipani/salto/fine del mondo/piccone/musica/numeri/valvola/dono/guerra/africa/giochiamo alla perquisizione in casa/febbre dell’oro/strudel di castagne/cuccagna/cinema/patto/panorama/funerale --------------- Questi i titoli dei diciannove capitoli che, mettendo al centro un oggetto o una situazione, segnano come tacche la crescita del piccolo Dzsátá. Tutto comincia con il ricordo del padre che un giorno lo saluta prima di partire per un lavoro fuori casa che lo avrebbe allontanato qualche giorno. I giorni, però, diventano settimane, poi mesi poi anni e il padre non torna. Siamo negli anni ottanta nella Romania di Ceausescu. Il regime non perdona la benché minima crepa figuriamoci cosa si può pensare di chi ha posto la sua firma in calce ad un manifesto di protesta. Dzsátá ha undici anni e la lotta per crescere è spietata in un mondo in cui gli adulti sono i nemici più ostili e crudeli. Sopravvivere, allora, è come giocare una partita a scacchi: fortuna ed astuzia sono gli ingredienti principali per conquistare il re bianco… Notevole lettura che mi riconferma lo spessore della Letteratura ungherese.
” strinsi forte il re bianco, l’avorio freddo si adattava perfettamente all’incavo della mia mano, sapevo che nessuno mi avrebbe mai piú sconfitto nei giochi di guerra perché in confronto a quel comandante qualunque soldatino di piombo, anche il meglio dipinto, valeva un cazzo.” ...more
”L’esistenza procede grazie alla spinta della sua energia con un fluido moto in avanti, eppure non smettiamo mai di cercare il punto d’origine.”
Pra”L’esistenza procede grazie alla spinta della sua energia con un fluido moto in avanti, eppure non smettiamo mai di cercare il punto d’origine.”
Praga 2018. A Jakub Procházka, astronauta della repubblica Ceca, viene affidata una missione...
”Circa un anno e mezzo prima, una cometa fino ad allora sconosciuta era entrata nella Via Lattea dalla galassia del Cane Maggiore, inondando il nostro sistema solare con una bufera di polvere cosmica intergalattica. Tra Venere e la Terra si era formata una nube, che i suoi scopritori, un team di Nuova Delhi, avevano ribattezzato Chopra. Era un fenomeno senza precedenti, che aveva immerso le notti terrestri in una luce zodiacale viola, alterando l’aspetto del cielo così come lo conoscevamo fin dalla nascita dell’uomo. L’universo notturno visto dal nostro mondo non era più nero, e la nube aleggiava nel firmamento, perfettamente immobile.”
Spaceman of Bohemia è il titolo originale. In italiano si epura la nazionalità e si lascia il ruolo ma in questo romanzo il territorio è fondamentale da ogni punto di vista (storia e società…) A partire dal nome della navicella (JanHus1) che chiama in causa lo storico teologo ceco che - tra la fine del ‘300 e l’inizio del ‘400 - fu precursore di Lutero e tra i fondatori del movimento protestante degli Ussiti che denunciava la corruzione della Chiesa Romana.
E’ evidente da subito che l’impianto fantascientifico è un innesco facilmente intuibile ma comunque valido, ossia quello del viaggio spaziale come spazio e tempo per compiere un viaggio dentro se stesso. Una storia personale dove, da un lato, con prepotenza un passato ingombrante cerca di occupare ogni interstizio. La colpa di un padre aguzzino della dittatura sovietica ricade sulla famiglia e incide sul percorso di Jakub condizionando le scelte dopo essere stato messo dalla parte dei perdenti. Dall’altro, un presente doloroso dove l’amore profondo per la moglie Lenka è segnato dalla scelta di intraprendere l’avventura spaziale. Tutto ciò s’intreccia prima con la Storia di una nazione (Boemia/Cecoslovacchia/Rep. Ceca) e poi confluisce in riflessioni esistenziali.
La nube di Chopra è ciò che divide un prima dove la narrazione procede con cautela nei meandri di questo intreccio di storie ed un poi dove gli eventi si succedono freneticamente con un ritmo incalzante.
Sorprendente la scrittura e ancora più sorprendente (non avendo voluto di proposito leggerne a sinossi) è stato scoprire a fine lettura che si tratta di un esordio.
Jaroslav Kalfar, classe 1988, si è trasferito a 15 anni con la famiglia negli Stati Uniti e l’amore per Praga si sente in ogni pagina di questo sorprendente romanzo:
“Lo spessore della storia, questa metropoli di sovrani e dittatori, di roghi di libri, di carri armati sporchi di sangue immobilizzati nell’indecisione. Passata attraverso tante vicissitudini, la città è ancora qui, con i suoi grandi e piccoli piaceri proiettati sui volti dei passanti che si affrettano verso uffici e negozi per prendere parte al rito delle rispettive esistenze. Loro non se ne andranno. Dio, non se ne andranno mai, e anche se ero costretto a lasciarli, li amavo con tutta l’anima, nella pace e nel tumulto.”
Un libro affianca questa lettura ed è “Robinson Crusoe” (“…uno dei romanzi preferiti della mia infanzia, che il dottor Kuřák mi aveva raccomandato di portare con me per creare «un’associazione confortante». Ma soprattutto, aveva aggiunto, avrei dovuto ispirarmi al protagonista come al perfetto esempio di un uomo che sposa la solitudine e ne trasforma gli aspetti invalidanti in opportunità di miglioramento personale.”).
Un assaggio “Sappiamo che il mondo funziona per capriccio, per un insieme di coincidenze. Esistono due sistemi principali per affrontarlo. Il primo consiste nel temere il caos, nel contrastarlo (per poi prendersela con se stessi quando la battaglia è perduta), nel costruirsi una vita ben strutturata fatta di lavoro/matrimonio/palestra/riunioni/figli/depressione/amanti/divorzio/alcolismo/riabilitazione/infarto, una vita in cui ogni decisione è una reazione alla paura di una sorte peggiore (si fanno figli per evitare di essere dimenticati, si scopa qualcuno alla rimpatriata nel caso l’opportunità non si ripresenti più e si ricade nel Santo Graal dei paradossi: ci si sposa per combattere la solitudine, dopo di che si piomba nel costante desiderio di stare da soli tipico di tutti i coniugi). Con questo genere di vita non si può vincere, ma per lo meno si prova la consolazione della lotta: il cuore umano è appagato quando i conflitti lo distraggono. Il secondo sistema è l’accettazione indiscriminata dell’assurdità di quanto ci circonda.” ...more
Ciò che apprezzo del genere distopico è la capacità di avere visioni “possibiliste” nei confronti di un “l’uomo è mai stato capace d’essere felice?”
Ciò che apprezzo del genere distopico è la capacità di avere visioni “possibiliste” nei confronti di una realtà che, in questo modo, è dotata di confini più malleabili e assume, quindi, forme differenti dal solito. Un po’ come quel vivere al congiuntivo proclamato da Ulrich, “L’Uomo senza qualità” nato dalla penna di Musil (1943) ; insomma, “non fantasticherie ma realtà non ancora nate”.
” La critica ha definito il mio lavoro un romanzo utopistico. Io mi ribello a questa definizione: non si tratta di un’utopia, ma di attualità. Non è una speculazione nel futuro, bensì un riflesso di ciò che è, di ciò che ci circonda. Non ho scritto una fantasia, di fantasia son sempre pronto ad aggiungerne gratis quanta ne vorrete: ho voluto invece parlare della realtà. È così, ma una letteratura che non guarda alla realtà, a ciò che veramente succede nel mondo, fatta di opere che non vogliono reagire a questa realtà con tutta la forza della parola e del pensiero, questa letteratura non è la mia.”
Così Karel Čapek scrive nella nota introduttiva di questo romanzo che, pubblicato nel 1936, è figlio di anni terribili che spingono al pensiero a formulare ipotesi che vanno al di là. In poche parole, il mondo dimostra nella sua attualità quello che fino a ieri credevamo impossibile. Dunque a Čapek nasce l’idea di una specie animale che in particolari circostanze abbia un’evoluzione pari a quella dell’uomo (trent’anni dopo saranno le scimmie!!!).
Da qui la domanda è:
” se una specie animale, diversa dall’uomo, poteva raggiungere qualcosa di nuovo simile a quanto noi chiamiamo civiltà, che ne pensate: avrebbe commesso le stesse assurdità del genere umano? Avrebbe conosciuto uguali sconvolgimenti storici? Avrebbe fatto le stesse guerre? Cosa ne penseranno dell’imperialismo dei sauri, del nazionalismo delle termiti, dell’espansionismo economico dei granchi o delie aringhe? Cosa diremmo se una specie animale diversa dall’uomo proclamasse che, visto il suo numero e la sua istruzione, essa ha il diritto di occupare il mondo intero e di dominare la natura?”
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Tutto comincia con “La strana storia del capitano van Toch “che, approdato su un’isoletta dalle parti di Sumatra, incontra degli strani esseri che al calar del sole emergono dalle acque marine.
Da qui un racconto mantiene teso il filo della satira dall’inizio alla fine (dove addirittura lo scrittore dibatte con se stesso in cerca di uno fra i finali possibili di questa storia) attraverso un viaggio in cui ogni -ismo di questo mondo (razzismo, sciovinismo, capitalismo, colonialismo, nazionalismo) diventa il marchio che ci rappresenta, il tatuaggio che ci definisce.
Lo sguardo sull’umanità è impietoso:
”«Sta per giungere il termine della tragedia del genere umano, — cominciava Wolf Meynert; — non lasciamoci ingannare dalla sua febbrile intraprendenza e dal suo benessere tecnico. Tutto questo è nient’altro che il rossore della tisi, dipinto sul volto d’un essere già votato alla morte. L’umanità non ha mai raggiunto un tenore di vita elevato come l’attuale; eppure trovatemi un solo uomo che sia felice, una classe soddisfatta, una nazione che non si senta minacciata. Ogni giorno di più, un ineludibile senso d’incertezza, d’oppressione, di disagio, s’impadronisce di tutti noi, che pure viviamo allietati dai doni della civiltà e godiamo d’una tale abbondanza di beni spirituali e materiali da far invidia a Creso”
La letteratura diventa un monito inequivocabile. E' così difficile capirlo?
"L’autore si rannuvolò: — Non chiedermi cosa voglio. Credi che per mia volontà cadano in rovina le terreferme degli uomini, credi che abbia voluto io che le cose andassero a finire così? È la logica degli avvenimenti. Ti sembra che possa intervenirci in qualche maniera? Ho fatto quello che ho potuto, ho avvertito in tempo gli uomini."...more
Un libro che desideravo leggere da tanto (nella mia lista desideri dal 2018!!) per una bellissima recensione letta aMa non riusciva a dimenticare
Un libro che desideravo leggere da tanto (nella mia lista desideri dal 2018!!) per una bellissima recensione letta a suo tempo. Un autore che, se ci trovassimo faccia a faccia, non potrei nominare per incapacità di pronuncia. Una struttura narrativa polifonica che ci racconta soprattutto gli anni dell’invasione nazista in territorio polacco fino agli anni ’90 quando la dittatura sovietica decade.
E penso- ed è il mio più grande tormento, ciò che più mi spaventa- che nell'uomo esistano come due poli, due vertici che toccano i cieli, o meglio il cielo e l'inferno; da un lato la sconfinata capacità di sopportare la sofferenza, accogliere il dolore, accettare la disperazione, e dall'altro la facoltà d'infliggere la sofferenza, inasprire l'altrui dolore e aumentare l'altrui disperazione. E fra questi due vertici circola una tensione, potrei dire la corrente dell'essere, ed è appunto la nostra paura, che ci fa soffrire e disperare, che ci spinge a tormentare gli altri"
[image] 1939- Le rovine di Varsavia
Andrzej Szczypiorski (l’autore di cui non so pronunciare il nome ma neanche scriverlo e ringrazio per questo – ancora una volta- il potere del ctrl+c) fu diretto testimone di molti fatti. Membro dell’armata partigiana che si oppose al nazismo, partecipò direttamente anche alla rivolta di Varsavia (1944) come Antoni uno dei protagonisti di questa storia e come lui conobbe il carcere del Regime stalinista. Ed è proprio un Antoni ormai anziano ad introdurci in questa storia. Lui, personaggio usato da chi manipolava gli eventi costruendo false realtà (lo so è oscura come frase ma sono ancora indecisa su quanto espormi sulla trama..) colloquia con una muta (nel senso che non sentiamo questa voce) giornalista degli anni ’90 che sta per l’appunto scrivendo un articolo su quegli anni.
I capitoli alternano i ricordi di Antoni, il sua storia d’amore a singhiozzo con Justyna e una schiera di altri personaggi di ogni risma.
C’è Arens, l’SS idealista che tramuta, grazie la suo senso pratico, le delusioni verso il partito in occasioni per sopravvivere..
C’è Trojan: un bellissimo ragazzo polacco dal temperamento pericoloso che scopre il fascino della forza per ottenere potere..
C’è Czarnocki, l’ebreo socialista che la moglie nasconde per quattro anni dietro ad un armadio e mai avrebbe pensato di rimpiangere quei giorni…
C’è Kroller, l’ebreo che ad Auschwitz era un addetto agli stessi forni dove la moglie e la figlia vengono ridotte in cenere così come il suo sogno, una volta libero, di andare in America…
E potrei continuare con questa schiera di attori che si contendono la scena. Lui, Antoni, al centro di un palco dove ignaro crede di poter ricominciare a vivere mentre attorno una ragnatela lo sta imbrogliando.
Qualsiasi guerra, qualsiasi dittatura è un furto dove si deruba la vita delle persone, il loro tempo su questa terra, la loro identità, le volontà, i sogni, i desideri, le possibilità di scelta: non rimane nulla.
Dal 1938 al 1991 tutta la Polonia ha subito questo furto. Una Storia che nessuno può riscrivere.
L’uomo si adatta anche alla sofferenza e sa che dopo al buio della notte arriverà il chiarore del giorno ma sa anche che questa volta le tenebre non lo sorprenderanno.
Notevole lettura.
” Tutto è capovolto (…) l’alto è in basso e il basso è in alto, ma questo non sempre, perché se così fosse, ci sarebbe già una regola, un principio ordinatore, dunque una parte è sempre in un modo e un’altra in un altro modo, purché non si accordi con il pensiero, con l’intuizione, con la speranza, purché non si accordi con il sogno, con la rivolta, con la morte.”
--- PS- ...e come sempre rimango piacevolmente sorpresa dalla coincidenza dei parallelismi nelle mie letture. Proprio in questi giorni, leggendo l’autobiografia di Emma Goldman, mi immergo nelle sue delusioni di fronte alle promesse mancate della Rivoluzione Russa.. ★★★★1/2 ...more
” Sentiva una specie di mal di mare. Gli pareva di trovarsi su una nave in un mare burrascoso. Era come se l’acqua si abbattesse contro le pareti di l” Sentiva una specie di mal di mare. Gli pareva di trovarsi su una nave in un mare burrascoso. Era come se l’acqua si abbattesse contro le pareti di legno, come se dal fondo del corridoio venisse un rimbombo di acque che ricadevano, come se il corridoio oscillasse di traverso e gli imputati in attesa ai due lati si sollevassero e si abbassassero.”
Perché mentire affermando che Il Processo sia una lettura piacevole?
Un giorno il signor K. si sveglia e, come tutte le mattine, prima di andare in banca, suona il campanello perché gli portino la colazione. Ma invece di Anna, la cuoca della pensione in cui alloggia, bussa alla porta un uomo sconosciuto.
Ecco che il signor K. precipita in un baratro e con lui il lettore che partecipa alla rappresentazione dell’incubo. Anzi, a dirla tutta, chi soffre di più, qui, è proprio chi legge. I personaggi che si muovono sulla scena sono poco più che marionette impassibili, imprigionate in una nebulosa rassegnazione mentre il lettore non riesce a star fermo sentendosi salire un caloroso moto di ribellione verso le inspiegabili ingiustizie.
Mentre aleggia lo spettro del processo, infatti, cresce l’ansia di sapere il motivo dell’arresto che dal famoso incipit (” Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché, senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato.”) assume, via via e in modo inesorabile, i connotati del paradosso. Lo stesso senso d’impotenza che ci può pervadere nei sogni che chiamiamo incubi. Angosce dove i contorni delle nostre paure tracimano e si definiscono in scene all’apparenza senza senso. Si fa strada, allora, quella sgradevole sensazione di essere invischiati nella tela del ragno: per quanto ci si dibatta non c’è alcuna possibilità di districarsi… E così, come nel sogno, la ragione e la coerenza spariscono e lasciano il posto alla metafora e al simbolo. Le analisi sono molteplici ma rimane il dubbio di cosa avesse voluto veramente fare Kafka con questo testo: se non fosse sopravvenuta la morte, lo avrebbe semplicemente sistemato (finendo i capitoli incompiuti) prima di pubblicarlo oppure aveva in mente una radicale revisione? Non lo sappiamo. Molti scrittori non desiderano lasciare dietro di sé scritti incompiuti che potrebbero dare luogo a giudizi errati. La volontà di Kafka non è stata rispettata e quello che oggi leggiamo de “Il processo” è la redazione fatta dalla persona a cui furono affidate le carte, “l’amico” Max Brod. Un tradimento che perdoniamo per quello che ha significato questo testo nel mondo della Letteratura...
” Sentiva una specie di mal di mare. Gli pareva di trovarsi su una nave in un mare burrascoso. Era come se l’acqua si abbattesse contro le pareti di legno, come se dal fondo del corridoio venisse un rimbombo di acque che ricadevano, come se il corridoio oscillasse di traverso e gli imputati in attesa ai due lati si sollevassero e si abbassassero.”
Keyla la Rossa è il romanzo scandaloso di Isaac Bashevis Singer che uscì a puntate s’una rivista yiddish di New York e poi quasi dimentiRiccioli rossi
Keyla la Rossa è il romanzo scandaloso di Isaac Bashevis Singer che uscì a puntate s’una rivista yiddish di New York e poi quasi dimenticato. Alcuni dicono che sia stata l’assegnazione del premio Nobel nel 1978 a ritardare la traduzione in inglese: Singer, infatti, scriveva in yiddish. La storia offre una panoramica degli angoli nascosti dei quartieri ebraici dove ladri e puttane fanno vergognare la gente per bene e per questo vengono marchiati e condannati alla solitudine sociale.
E’ il 1911. Keyla, detta la Rossa (cosi detta per “suoi riccioli rossi, che brillavano simili a lingue di fuoco “), è una nota prostituta che sembra essersi ritirata dalla professione dopo aver sposato Yarme, un ladro incallito. E’ il 1911 e siamo a Varsavia, città inglobata nel territorio russo e dove pullulano cerchie di oppositori al regime zarista. Una città in cui risuonano le attività di artigiani, le preghiere degli osservanti, gli sguardi d’intesa tra gli appartenenti ai gruppi segreti socialisti o anarchici e poi le voci sguaiate della feccia umana che pensa a vivere un eterno oggi.
Ma c’è un sogno che accomuna tutti. Sempre quello: la fuga in America. Il sogno di un luogo in cui ricominciare, leccarsi le ferite reinventarsi e –chissà? - per quelle come Keyla potrebbe essere, finalmente, l’occasione per cancellare ogni peccato.
Keyla, la sgualdrina trabocca d’amore ma, attorno a lei, ruotano tre uomini (Yarme, Max e Bunem) che non sanno dare ma solo prendere. Se lei è il miele, loro sono api ronzanti e pericolose, ognuno alla sua maniera.
Può bastare una fuga per cancellare il passato?
"A Bunem sembrava che gli uomini la guardassero con concupiscenza. Nonostante tutto era sempre bellissima. I capelli rossi, gli occhi verdi e la pelle candida facevano pensare a un dipinto.”...more
Apparentemente sei racconti ma se mai avete letto qualcosa di Hrabal saprete già che niente è come appare«Praga è come il forcipe dell’ostetrica»,
Apparentemente sei racconti ma se mai avete letto qualcosa di Hrabal saprete già che niente è come appare all’inizio. Così le sei storie sono contenitori che raccolgono e accolgono altri fili di narrazione.
Si parte con “Jarmilka” (cinque stelle piene per me):
”Sono nuovamente in fonderia. Di lontano vedo Jarmilka, sta trascinando le marmitte con la minestra. Mi affretto verso di lei e la fisso a lungo fino a farle abbassare gli occhi. E’ incinta di sei mesi, quando apre la bocca posso vedere che le manca una buona metà della dentatura. Ma è una ragazza semplice e, proprio per questo, una vera bellezza.”
Così ci introduce l’ignota voce narrante di un operaio testimone della tragica storia della giovane ragazza: sedotta abbandonata al suo destino di maternità e derisa dagli altri uomini.
Una storia che offre ben pochi spiragli alla consueta comicità dello scrittore ceco e a cui fanno eco altri tragici scenari. Sono le memorie di Vashek Prucha, amico e collega che non riesce a cancellare l’incubo dei ricordi di un passato non tanto lontano. Sono i giorni della prigionia nel campo di concentramento. Anedotti in cui era testimone inerme della follia disumana.
”Carichiamo ancora, poi ci riposiamo un po’, ma a Vashek tutto ricorda quei sei anni. «Là lavoravo nei trasporti. Una volta col Rollwagen stavamo passando sopra a una cava di sabbia abbandonata dove avevano messo il cosiddetto Sonnenkommando. C’erano dei vecchi nudi che morivano sotto il sole ardente di luglio. Stavano là finché non morivano e se non morivano li picchiavano a morte. I loro corpicini erano ormai come degli stecchini, ma avevano le gambe gonfie come annaffiatoi… le S.S. li prendevano a calci in quelle vesciche e quei vecchi squittivano… in modo strano… noi stavamo col Rollwagen sopra di loro e ridevamo di cuore, ridevamo a crepapelle, tanto era comico lo spettacolo. Poi ci siamo scambiati un’occhiata e ci siamo detti: ‘Ma dove siamo?’ Vedi, quel nostro riso era qualcosa di peggio del pianto».
Gli altri racconti sono permeati da una crescente vena surreale propria dell’autore.
Devo dire che in alcuni casi ho faticato a tenere il filo del discorso (se un discorso c’era!!), in altri le scene sono di una comicità è assoluta.
«Ma non è tutto, il colmo fu davanti al tribunale, quando il giudice ha cominciato a urlare, ma come è potuto accadere! E quella serva, una donna gigantesca come lei, ha chiesto al piccolissimo giudice vuole vedere Praga d’oro e il giudice ha risposto sì, voglio. E la serva ha stretto la testa del giudice fra le palme e lo ha sollevato verso il soffitto. Quando lo ha deposto il giudice è caduto a terra, era morto anche lui!» «Una ghiottoneria surrealista», disse il poeta alzando gli occhi al cielo, e aggiunse in tono di accusa: «Io sono alla ricerca col lanternino di storie simili e scavo nelle piazze, e costui», e indicò il proprietario dell’impresa di pompe funebri, «e costui ne ha il sacco pieno!»...more
Meravigliose storie inanellate nella città di Praga.
E' la fine del '500 e l'Europa brucia per le contraddizioni sociali/religiose/politiche. Chi narra ci Meravigliose storie inanellate nella città di Praga.
E' la fine del '500 e l'Europa brucia per le contraddizioni sociali/religiose/politiche. Chi narra ci riferisce i racconti del suo precettore -lo studente di medicina Jakob Meisl- e la Storia si fonde con la leggenda, la religione con la kabala. Si passa dal ghetto alle sale del Palazzo Imperiale, dall'ironico sarcasmo alla dolce poesia di una storia d'amore sospesa nel limbo tra sogno e realtà...
Peccato averlo letto con la febbre che mi saliva. Peccato scriverne mentre sono ancora debilitata con la consapevolezza di non rendergli giustizia...
"Ero forse stato cieco a non prevedere che la guerra sarebbe divenuta per lei il teatro in cui recitare la sua grande, patetica parte?"
Siamo negl"Ero forse stato cieco a non prevedere che la guerra sarebbe divenuta per lei il teatro in cui recitare la sua grande, patetica parte?"
Siamo negli anni ’30 quando un solitario studente di provincia inizia a frequentare un teatro di Varsavia, dove un suo conoscente fa la comparsa. Il palcoscenico diventa fulcro della storia perché se, da un lato, è il luogo fisico dove Tom (pseudonimo del protagonista e voce narrante) s’innamora di una pallida ragazza Tutto, infatti, gira attorno ad una coesistenza tra realtà e finzione: ogni cosa ha un doppio strato significante.
Ascoltando un Rondò di Chopin nasce in Tom una fantasiosa idea, una recita che sfugge dalle mani del suo creatore per diventare cosa viva ”Rondò” diventa infatti il nome di una sua invenzione; una menzogna ideata per attirare l’attenzione di Tola. Così Tom fonda un inesistente gruppo partigiano sperando di attrarla con il fascino del mistero.
”Se per organizzare il mio teatrino di illusioni e creare una forma di non verità, identica alla realtà, mi servivo di invenzioni e di menzogne, lo facevo contro la morte, per salvare la vita. Agivo contro la morte di qualcuno, per salvare la vita di qualcuno. In fin dei conti mi comportavo come il destino, solo che i miei verdetti non erano ciechi, e non era il caso a guidare le mie provvidenziali decisioni. Sapevo chi volevo salvare e forse inconsciamente sapevo anche il perché: perché io stesso uccidevo. Probabilmente era per quello.”
Una farsa che gioca sulle ambiguità di una realtà in sé drammatica.
Una lettura che richiede un’ostinazione di cui al momento ero rimasta sprovvista. Ho faticato molto durante questa lettura. La struttura stessa è sfiancante: una lunga lettera in cui il fantomatico Tom risponde ad un articolo di una rivista storica presentando la sua verità. E’ un continuum dove il racconto è inframezzato da riflessioni più filosofiche. L’ho trovato stancante pur apprezzandone l’idea. Da qui le tre stelline...
”La cosa per me è importante perché ha una relazione diretta con la domanda che mi fu posta ripetutamente tra il 1950 e il 1953: «Ci prende per matti, pensando di farci bere le sue storielle?». Eppure io dicevo la verità. Mi sembra inquietante il fatto che il mio interlocutore – senza dubbio sincero in quei momenti – considerasse la mia verità come una sorta di fantasia che il buon senso umano doveva scartare immediatamente, come una menzogna o un’assurdità. Perciò se solo un matto avrebbe potuto credere alla verità di quelle affermazioni, chi mai poteva essere colui che le aveva inventate? Un matto. Ora io in me non avvertii mai, neppure per un momento, la follia; tutto quel che feci in quel periodo derivava da necessità logiche, potrei giustificare ogni cosa, passo dopo passo”...more
Dopo lunga meditazione decido di non dare un voto a questo libro. E' un testo che si scosta e rifugge ogni classificaziDa sbucciare come una cipolla...
Dopo lunga meditazione decido di non dare un voto a questo libro. E' un testo che si scosta e rifugge ogni classificazione. Una lettura che quasi respinge il lettore sfiancandolo nella ricerca di un senso narrativo.
Visioni, allucinazioni, ricordi del passato, si alternano e confondono rendendo ardua la lettura.
Un susseguirsi d'immagini che disturbano la solitudine dell'uomo facendo rumore. Ecco, forse un po' troppo rumore...
Dunque un folle racconto che occulta e mette in difficoltà. Anche il più scaltro lettore si sente a disagio: cerca il senso. Ma non vi è un senso ma una molteplicità, una stratificazione. Come una cipolla: togli una buccia e ne scopri ancora e intanto gli occhi bruciano. Io cosa ho trovato? Un primo livello fatto di farneticazioni alcooliche che solleticano il desiderio dell'abbandono o l'appellarsi a quel famoso diritto di ogni lettore di saltare frasi e/o paragrafi.
Un secondo livello premia la resistenza e fa scoprire un profondo e commuovente amore per i libri. Il protagonista, Hanta, decora i pacchi di carta pressata con stampe di quadri famosi:
" Il mese scorso mi hanno portato e gettato in magazzino seicento chili di stampe di famosi maestri, sei quintali di fradici Rembrandt e Hals e Manet e Monet e Klimt e Cézanne e altri pezzi grossi della pittura europea e così adesso ricopro i lati di ogni pacco con le stampe e verso sera, quando i pacchi stanno in fila davanti all'ascensore, non riesco a saziarmi e a smetter di guardare quella bellezza adorna ai lati ".
Il libro rimane aperto sulla pagina dove c’è la frase, la citazione prescelta. Una vita spesa, consumata alla ricerca del Libro che darà senso alla propria esistenza. Perchè solo la cultura genera verità.
Un terzo livello dove Hanta è simbolo dell'Uomo con degli ideali. I tempi moderni, tuttavia, stanno rapidamente cambiando e il nuovo mondo non può perdere tempo con fantasie perchè ciò che diventa centrale è la produttività. Queste due realtà hanno combattuto un'estenuante battaglia. Il vecchio ed il nuovo: i ratti ed i surmolotti mentre " nelle cantine lavorano angeli decaduti, uomini con istruzione universitaria che hanno perduto la propria battaglia ".
In conclusione, un libro ostico e probabilmente in ciò sta la sua bellezza.
Ritengo di avere un conto aperto con Bohumil Hrabal: per me non finisce qui....more
Cristine vive una vita modesta, monotona e piatta come l'arredamento dell'ufficio postale in cui lavora: identico a quello di ogni sperduto paesino auCristine vive una vita modesta, monotona e piatta come l'arredamento dell'ufficio postale in cui lavora: identico a quello di ogni sperduto paesino austriaco. Giornate trascinate e nessuno obiettivo. Poi, all'improvviso un telegramma...
(view spoiler)[Un invito da parte di una zia emigrata da tempo in America a passare qualche giorno di vacanza a Pontresina cambia la vita di Cristine che per la prima volta esce dal paesino. L'impatto con il lusso e la spensieratezza propria di chi non deve pensare a come sopravvivere compiono l'atto di trasformazione. E' l'estasi di libertà e niente sarà più come prima. (hide spoiler)]
... per me è stato come se capissi per la prima volta cosa vuol dire respirare
Zweig non dipinge solo un dramma individuale ma quello di una generazione che denuncia il paradosso sociale delle diseguaglianze. L'apparato statale è denigrato, deriso ed accusato come primo e principale colpevole
(…) questo fantoccio assurdo, allo Stato, a Lui, che non respira e non vive, che non ha desideri e non conosce niente, questa invenzione di massima stupidità dell'umanità, che stritola gli esseri umani.
Una condanna dunque è già stata proclamata e chi ha sofferto e soffre è legittimato ad agire contro lo Stato in quanto eterno debitore nei confronti del popolo. Affinché tutti abbiano la propria estasi di libertà.
Essere coscienziosi nei confronti dello Stato poteva valere nei tempi passati, quando Lui era un benevolo precettore, probo, educato e corretto. Ora che lo Stato si comporta da farabutto, ognuno di noi è legittimato a essere a sua volta un farabutto....more
Le spietate vite solitarie al confine - “Mi piacciono i numeri che non hanno un divisore. Sono come noi in questo villaggio. Diversi da tutti gli a Le spietate vite solitarie al confine - “Mi piacciono i numeri che non hanno un divisore. Sono come noi in questo villaggio. Diversi da tutti gli altri.”
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”Camminiamo e restiamo in silenzio. Ci sono ventitré anni tra di noi. Il ventitré non si può dividere. Il ventitré è divisibile solo per se stesso. E per uno. C’è questa solitudine tra di noi. Non si può scomporre in parti. Bisogna trascinarsela tutta intera.”
Così comincia l'unico romanzo scritto dall'ungherese Szilárd Borbély, accademico e poeta molto apprezzato in patria e morto suicida nel 2014 (un anno dopo la pubblicazione de “I senza terra”), forse sopraffatto da quella stessa solitudine di cui parla la voce narrante.
Chi parla è un bambino (con molta probabilità, l'autore stesso) che racconta scavando nei ricordi di un'infanzia trascorsa in un piccolo villaggio del nord- est ungherese. Un confine fisico: tra Romania ed Ucraina, metafora di un 'esistenza in bilico. Precarietà ed emarginazione che circoscrivono con un'immaginaria e al tempo stesso, ben demarcata linea: un qua ed un là, un loro ed un noi. Il microcosmo del villaggio riflette tutte le contraddizioni e le incertezze di un'epoca travagliata: sono gli anni del regime comunista a cavallo tra il 1960 ed il '70. Le bocche che masticano la parola Progresso e le menti che restano ancorate ad un retaggio di medioevali superstizioni. L'Unione Sovietica è la severa ed attenta madre che controlla ogni suo figlio e lancia diktat a cui non si sfugge. La caccia ai kulaki come nemici del popolo sovrano è spietata e possedere la terra se prima era un vanto diventa una vergognosa colpa da lavare. Strascichi del passato nazista rimangono in una terra dove padroneggiavano le antisemite e temute Croci Frecciate.
La miseria è fatta di....
...sapori , odori, vuoti materiali e di mancanze affettive...
”La stanza è piena dell’odore del latte. Dell’odore della cacca. Dell’odore della miseria. Solo dell’odore della mamma ce n’è poco. Di mamma non ce n’è abbastanza. Non ce n’è abbastanza per nessuno.”
...violenza fisica...
”Mia madre dice che anche loro sono stati picchiati, perciò credono che si debba fare così. «Così si diventa uomini» dicono di solito. «Me ne sarai grato» dicono quando finiscono di picchiare.”
...violenza verbale...
«Ti ho cacato io! Non mi metto a discutere con la mia merda!»
Microcosmi che sono circoscritti ad una stanza di terra battuta e fango e che comunicano con parole proprie che ricordano altre appartenenze.
Perchè è anche un problema di identità
L'identità è una carta stropicciata e maltrattata dal tempo su cui le lettere a malapena si riescono a riconoscere. Il piccolo Goga Bobonka è confuso- «Chi siamo?» chiede in continuazione. E’ il nonno a chiarire qualcosa:
” «Noi siamo rumeni. Nel villaggio ci chiamano “i trapiantati”. Ma sei hai la terra non ti possono dire: “Va’ dove ti pare, aria!” Il contadino anela alla terra come chi affoga anela all’aria. Tu non dimenticare che sei rumeno! Fai come se fossi ungherese. Anche gli altri fanno così. Ma non dimenticano chi sei tu. Gli ungheresi sono come il fango. Si tirano giù a vicenda. Ma i rumeni sono leggeri. Le parole rumene hanno preso il volo, ma aleggiano ancora sulla nostra testa.» “
Quindi occorre fingere di essere ungheresi conservando la coscienza delle origini romene. Non si può fare altrettanto con un'altra parola: «...ebreo...». Una parola velata, sussurrata. Un oscuro segreto, una vergogna.
” Ebreo è il rimorso di coscienza ed ebreo è il senso di colpa che solo il disprezzo può alleviare (…) «L’ebreo è colui che tutti odiano. Colui che respingono solo perché ebreo» dice mia madre. «Colui di cui hanno accettato l’aiuto, ma non possono perdonargli di averli aiutati. Colui che ha una stella sulla fronte. Colui che non accettano. Come non accettano nemmeno noi »”
I senza terra - Se n’è già andato Messiash?
E' tutto troppo duro, troppo squallido perché non si cerchi sollievo e rifugio in una speranza. Aspettare un cambiamento che salvi:
”«Oggi giochiamo ad aspettare il Messia.» «Da quale parte arriverà?» chiede mia sorella che sta subito al gioco. «Non è lo stesso? Facciamo che siamo ebrei» dice mia madre.
“Con mia madre facciamo che aspettiamo il Messia, come gli ebrei. Nel cielo sereno spuntano già le stelle. È venerdì sera. È già cominciato lo Shabbat. Ma non è arrivato nemmeno oggi. Comunque non è venuto. Lo abbiamo atteso invano. Mia madre racconta di Gerusalemme. E della regina Ester. E del fatto che in futuro lo festeggeremo insieme. Ma non qui”
“...fino a quando vi saranno sulla terra ignoranza e miseria, i libri come questo non potranno non essere inutili.” (Victor Hugo- Premessa alla Prima Edizione de “I miserabili)
La miseria non vive solo di sottrazioni. Ci sono accumuli che altrimenti non si trovano. Odori che le sono propri. Un esercizio alla brutalità a cui ci si sottopone da bambini con una ritualità a cui non si può sfuggire. Comportamenti considerati necessari perchè nel quadro compaiano le giuste proporzioni e non manchi nessuna pannellata. L'immagine della miseria è quella dell'orrido. Una lettura dal sapore metallico. Difficile non pensare alla Kristóf. Difficile esprimere appieno quanto mi sia piaciuto questo libro…....more
Pubblicato nel 1936, I fratelli Ashkenazi, è un vero e proprio affresco che mette in scena tutta una serie di” il ghigno malefico del Mefistofele”
Pubblicato nel 1936, I fratelli Ashkenazi, è un vero e proprio affresco che mette in scena tutta una serie di cambiamenti epocali nell’Europa dell’Est tra Ottocento e Novecento.
Tutto comincia con un grande flusso migratorio verso la città polacca di Lodz. Un folto gruppo eterogeneo ma con un comune denominatore: tutti portano con sé un telaio di legno. Sono i tessitori che, attirati dai benefici governativi volti a sviluppare il territorio, accorrono per aprire le fabbriche tessili. Così Lodz, col passare degli anni, diventa non solo un importante centro industriale ma anche una delle città polacche con la più alta concentrazione di cittadini ebrei.
Protagonisti principali sono i due figli del ricco mercante Reb Abraham Kirsch Ashkenazi,. Sono gemelli ma diversi tanto nell’aspetto quanto nel carattere. Simcha Meyer, il primogenito, è più piccolo di corporatura ma molto sviluppato nell’ingegno. Javcob Bunin è più sviluppato fisicamente, meno sveglio ma sicuramente più simpatico.
Partendo da questi due fratelli, Singer ci dipinge un mondo in fermento dove nulla è omogeneo e compatto ma anzi presenta delle crepe che man mano si allargano. A partire dalla comunità chassidica da cui si allontana chi vuole fare affari con i gentili ma anche da coloro che si uniscono ai movimenti operai socialisti e rifiutano il credo religioso.
L'umanità messa in scena è una variegata schiera di narcisisti di cui l’autore ci dà una panoramica interessante e distaccata anche grazie alla scelta narrativa di raccontare attraverso una terza persona onnisciente e senza (o quasi) discorsi diretti.
Ho trovato molto interessante l’attenzione prestata alla condizione femminile soprattutto all’interno della comunità chassidica. Singer è riuscito bene a render l’idea della chiusura del mondo ortodosso con delle figure femminili molto differenti tra loro ma accomunate da una condizione che le rende prigioniere del ruolo di genere a loro assegnato.
Un romanzo ricco di tematiche. Mentre le nuove generazioni si staccano dai padri tradendo le loro aspettative la Polonia vive l’occupazione russa prima e la tedesca poi, incamerando tutti questi velenosi ingredienti che si sfogheranno poi nel più bieco nazionalismo dove l’ebreo si presta, come sempre, ad essere il perfetto capro espiatorio.
«Tutto quel che abbiamo costruito, l’abbiamo costruito sulla sabbia.»
Un grande romanzo: denso, mai noioso. Un quadro realistico di un’Europa mai soddisfatta e intenta a sventolare bandiere e alzare il pugno scatenando la follia di massa per nascondere i propri fallimenti.
Ieri come oggi appare ” il ghigno malefico del Mefistofele” ...more
“... sapeva che all’inferno non poteva esservi peggior diavolo di quello che ciascun uomo è per il proprio simile.”
Un libro di memorie scritto da “... sapeva che all’inferno non poteva esservi peggior diavolo di quello che ciascun uomo è per il proprio simile.”
Un libro di memorie scritto da una nobildonna, nativa della Slesia che oltre a dare un’interessante testimonianza storica racconta curiosi episodi della propria vita che riguardano suo padre chiamato «il cavaliere svedese». Questo l’espediente narrativo da cui prende l’avvio la storia:
” Racconteremo qui la storia di quel «cavaliere svedese». È la storia di due uomini. Essi s’incontrarono in un gelido giorno d’inverno al principio dell’anno 1701 nel fienile d’un contadino e strinsero amicizia. E poi proseguirono insieme per la strada maestra che da Oppeln, attraverso la campagna slesiana ammantata di neve, menava laggiù in Polonia.”
L’incontro tra due uomini è fortuito. Entrambi scappano: il primo è un ladro e fugge dalla forca; il secondo, invece, è un disertore. Uomini profondamente differenti, non solo per estrazione sociale – un vagabondo ed un Signore- ma anche per temperamento, si ritrovano a condividere tozzi di pane secco e il freddo implacabile di chi si ritrova senza un tetto sopra la testa.
Un'avventura avvolta nella magica presenza degli spiriti ed affidata alle superstizioni contadine i cui scongiuri smettono di essere rituali primitivi e si trasformano in strumenti concreti ed efficaci.
E’ curioso che parallelamente stessi leggendo “I tre moschettieri”. Qui le cosiddette guardie regie sono il Male tanto che il loro comandante è detto «il barone del malefizio», lì sono eroi belli e simpatici col sole che li bacia in fronte. Qui c’è una scrittura superba, lì c’è l’intrigo ma non si può affermare che Dumas padre scrivesse con la punta fine…
Chiuso il libro ho sentito un brivido…
«Fa’ attenzione e drizza le orecchie, voglio raccontarti una cosa» bisbigliò il ladro. «Tutte le cose che vedi su questa terra appartengono a Dio. L’oro e l’argento ch’è in casa dei preti appartiene a Dio – e suo resta, anche se lo teniamo noi nei nostri sacchi. Io penso che sia un’opera buona far circolare tra la gente quel tesoro inoperoso. Ma se invece è un peccato come dici, allora lo sai bene anche tu: come non puoi fare una giubba, senza usare ago e forbici e non puoi costruire una casa senza impiegar muratori e carpentieri, così non puoi neanche procurarti dei giorni buoni senza commettere qualche peccato»....more