pierlapo quimby's Reviews > Pellegrinaggio al Tinker Creek

Pellegrinaggio al Tinker Creek non è la traduzione letterale di questo sorprendente saggio che valse ad Annie Dillard il Pulitzer nel ‘75; il titolo originale è Pilgrim at Tinker Creek e la differenza forse non è di poco conto.
Concentrare l'attenzione sul 'pellegrinaggio' significa dar risalto al percorso, che è programmato, se ne conoscono le tappe intermedie e la meta finale, si cammina, si fatica, ma seguendo sentieri noti e battuti da altri.
Annie Dillard non fa niente di tutto questo nei paraggi del Tinker Creek, in una valle delle Blue Ridge Mountains in Virginia, dove viveva nei primi anni settanta, quando scrisse il libro; non compie alcun pellegrinaggio canonico eppure si rivela nella sua condizione di pellegrina.
Si muove da una sponda all’altra del fiume, visita boschi e prati, isolotti a forma di lacrima e cottage abbandonati, sale su ponti e tronchi di sicomori abbattuti, si apposta tra cespugli e riposa su rocce piatte di arenaria o tappeti di foglie secche.
Me la immagino come una specie di Sir David Attenborough dispersa nelle foreste montane, forse vestita, come sempre si vestiva lui nelle serie documentaristiche BBC, con pantaloni cachi e camicia azzurra, cosa che mi generava una immotivata ansia quando si immergeva nella fanghiglia di qualche palude per raccogliere un raro esemplare di anfibio maculato, impiastricciandosi tutto al punto da indurmi a pensare che per girare le scene successive avrebbe dovuto indossare abiti di riserva (quanti pantaloni cachi si portava dietro? quante camicie azzurre?).
Annie Dillard però non si limita a deliziarci con minuziose descrizioni di ciò che incontra, che si tratti di un topo muschiato a nuoto dorsale nel fiume, una pelle di serpente annodata o uno stelo d’erba addobbato con ooteche di mantide pronte a schiudersi, ma si lascia trasportare, e noi con lei, verso meditazioni vaste e profonde sulla natura e il creato (spesso Dillard evoca un imperscrutabile ‘creatore’ e del resto cosa muove il pellegrino se non l'anelito religioso?), avverte l’esigenza di immergersi in esso abbandonando le umane categorie morali, prive di senso e utilità quando, per dirne una, si esamina il ciclo frattale dei parassiti incistati dentro altri parassiti e così via fino al quinto grado di parassitismo ("Come si può comprendere una cosa simile?", "Che tipo di decima paghiamo al diavolo?"); bisogna agitarsi senza sosta come particelle subatomiche per non perdere il bello che ci circonda ovunque, il mistero della vita nascosto in ogni angolo, un mistero, mi viene da aggiungere, in grado di rivelarsi a prescindere da novelle e forse artefatte prese di coscienza ecologista, di cui in queste pagine non c’è traccia.
La ‘pellegrina’ del titolo originale, allora, non descrive la condizione di chi si muove verso una meta conosciuta, ma di chi sa che non si è mai troppo curiosi di guardare e che dovremmo fare nostra la natura stessa dei fiumi: "Il loro è il mistero della creazione permanente e di tutto ciò che implica la provvidenza: l’incertezza della visione, l’orrore di ciò che è immutabile, la dissoluzione del presente, la complessità della bellezza, l’urgenza della fecondità, l’inafferrabilità di ciò che è libero e la natura difettosa della perfezione".