Recensione: Earwig
- Lucile Hadzihalilovic firma un'opera criptica e ammaliante, un capolavoro saturniano soggiogante che apre le porte verso altre dimensioni
"Sono un viaggiatore, uno straniero in questa città. Abito lontano da qui, all'ombra di una grande cattedrale. Ci siamo già conosciuti, questo è certo...". Come questo misterioso straniero, curioso e invadente, incrociato dal protagonista del suo nuovo film, Earwig [+leggi anche:
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intervista: Lucile Hadzihalilovic
scheda film], presentato nel concorso Platform del 46° Festival di Toronto (e che continuerà il suo percorso in gara al 69° Festival di San Sebastian), la regista francese Lucile Hadzihalilovic ci trascina ancora una volta nei suoi mondi enigmatici, inquietanti e affascinanti di cui solo lei custodisce i segreti.
Dopo Innocence ed Evolution [+leggi anche:
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scheda film] (premiati a San Sebastian nel 2004 e 2015), è in lingua inglese che la regista esprime questa volta le sue doti occulte e sfoggia tutta la sua ammaliante padronanza di atmosfere bizzarre attraverso un lavoro minuzioso sulle scenografie (interni spogli e opprimenti con le finestre sempre chiuse firmati Julia Irribarria), la fotografia (chiaroscuri malinconici e patinati ad opera di Jonathan Ricquebourg), la musica (Augustin Viard e Warren Ellis) e il suono (ticchettio quasi onnipresente dell'orologio, campane che risuonano in lontananza, scricchiolii del pavimento, respiri e deglutizioni, cristallo che canta, ecc.). Perché è un linguaggio cinematografico totalmente proteiforme quello favorito dall'approccio altamente sensoriale della regista, a partire dall’orecchio in primo piano che apre il film.
Conservando la suspense attorno a una trama criptica (la sceneggiatura di Lucile Hadzihalilovic e Geoff Cox è tratta dall'omonimo romanzo di Brian Catling) senza mai chiarirne i dettagli, la parte di realtà o di incubo, e lasciando solo filtrare indizi con il contagocce attraverso due storie che si intersecano in temporalità leggermente diverse, la regista realizza un'opera ipnotica di prim'ordine.
Di cosa tratta esattamente? Ognuno è libero di farsi un'opinione sul nevrastenico Albert (Paul Hilton) che si prende cura di Mia (Romane Hemelaers), una ragazzina di circa dieci anni a cui ogni giorno mette dei denti di ghiaccio con l’aiuto di uno strano dispositivo che ricorda una ganascia da cui pendono delle piccole fiale. Un'attività molto bizzarra (che scandisce giornate intervallate da pasti silenziosi e notti in cui i due abitanti si spiano a vicenda) che non verrà mai spiegata al di là delle telefonate minimaliste di un "padrone" che prende notizie su Mia e infine ingiunge ad Albert di prepararla per uscire e per un viaggio imminente. Un'apertura verso il mondo esterno che vedrà la traiettoria del duo incrociare quella di Celeste (Romola Garai) e Laurence (Alex Lawther), due personaggi precedentemente incontrati da Albert in circostanze drammatiche...
Aggiungete qualche pista ellittica ("sul campo di battaglia forse? O prima, all'orfanotrofio? No, forse dopo la guerra quando avevi una moglie?") e avrete solo un'idea molto vaga della natura opaca (e pur sempre intrigante) di Earwig, che ricorda alla lontana Spider di David Cronenberg. Ma capire il film razionalmente e cercare di interpretarlo non ha molta importanza, perché tutta l'arte altamente compiuta di Lucile Hadzihalilovic è percettiva. E i suoi ammiratori si lasceranno facilmente stregare dalle perturbazioni di questo film-caleidoscopio oscuro e raffinato.
Prodotto dai britannici di Anti-Worlds e i francesi di Petit Film, e coprodotto dai belgi di Frakas Productions, Earwig è venduto da Wild Bunch International.
(Tradotto dal francese)
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