Recensione: Neighbours
- L’ultimo lungometraggio del regista curdo-svizzero Mano Khalil racconta l’assurdità della guerra attraverso gli occhi di un bambino
Habitué delle Giornate di Soletta dove ha presentato i suoi ultimi tre film (Hafis & Mara [+leggi anche:
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scheda film] (2016) e The Beekeeper (2013), vincitore del prestigioso Prix de Soleure), il regista curdo-svizzero Mano Khalil ritorna al festival per presentare, in prima mondiale, Neighbours. È ancora una volta verso la sua terra natale, e il conflitto che la logora, che il regista curdo-svizzero volge il suo sguardo, questa volta filtrato dalla spensieratezza di un bambino.
La storia, allo stesso tempo semplice e crudele, raccontata in Neighbours è quella di un villaggio alla frontiera turco-siriana all’inizio degli anni ottanta. Come in un microcosmo, protetto dalla crudeltà e dall’intransigenza di una società sempre più radicalizzata, gli abitanti convivono pacificamente apprezzando le proprie differenze come tasselli indispensabili di un puzzle che ingloba armoniosamente ognuno di loro. Niente buonismo, solo lo svolgersi naturale di un quotidiano naturalmente multi sfaccettato che nessuno sente il bisogno di rimettere in questione.
È qui che vive Sero (interpretato dall’impressionante Serhed Khalil), il protagonista del film, un bambino curdo di sei anni che seguiamo durante il suo primo anno di scuola, un anno decisivo che cambia la sua vita per sempre. Non solo sua madre muore ferita da un proiettile sparato “involontariamente” da un soldato che sorveglia la frontiera che delimita il paese, ma tutto il suo piccolo mondo viene rivoluzionato dagli insegnamenti (o meglio dall’indottrinamento) radicali del nuovo maestro inviato da Damasco per riprendere le redini della scuola araba che Sero frequenta. Il nazionalismo assurdo sostenuto dal nuovo maestro si scontra allora con la pacifica convivenza di tutti gli abitanti del paese (al di là della loro religione o origine) confondendo in modo profondo le piccole certezze di Sero e dei suoi compagni di classe.
Grazie al fatto che il film ci spinge a osservare questa realtà complessa attraverso gli occhi di un bambino, questa mantiene sempre un velo di magia che impedisce alla tristezza di prendere il sopravvento, come se la crudeltà e il pragmatismo del nuovo maestro non riuscissero davvero ad attraversare il muro dell’infanzia con le sue illusioni e desideri semplici (come il sogno di Sero di poter un giorno guardare i cartoni animati alla televisione).
Quasi felliniano, tanto la magia dell’infanzia si mescola non senza una certa dose di humour con la crudeltà del presente, il momento in cui gli allievi rispondono, alla domanda del maestro su come combatterebbero gli ebrei, con un inaspettato e spontaneo “a guardia e ladri”, o quando discutendo insieme dei termini “sionismo” e “imperialismo”, che il maestro non smette di ripetere, li descrivono come creature fantastiche senza avere la minima idea di cosa significhino. Anche la mascolinità abusiva dello zio di Sero viene filtrata attraverso la sensibilità ancora innocente del bambino che non esita a difendere sua zia dalla violenza del marito. Un momento davvero catartico che mette l’accento sull’aspetto costruito di una mascolinità virile e patriarcale che non ha ancora avuto modo, come l’indottrinamento del maestro, di plasmarlo.
In questo “huis clos” la guerra rappresenta una potenzialità pericolosa che rimane però pressoché invisibile, come un mostro pronto ad attaccare di cuoi non si conosce però il volto. Al di là delle immagini d’orrore che possiamo immaginare, è proprio questo silenzio, quest’invisibilità palpabile, la possibilità che questa strappi a Sero la sua spensieratezza a fare paura e a regalare al film una vera profondità.
Neighbours è prodotto da Frame Film GmbH, che si occupa anche delle vendite all’internazionale, insieme alla SRF Schweizer Radio und Fernsehen, alla SRG SSR ed a ARTE G.E.I.E..
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